“Ci sarà pure un giudice a Berlino!”


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“Ci sarà pure un giudice a Berlino!”


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L’accaduto[1]

            Per rimanere all’essenziale del fatto, mi attengo a quanto riportato in un’opera di Emilio Broglio dal titolo Vita di Federico il Grande, 2 voll., Milano-Napoli 1874. Redatta con grandi pretese letterarie e stilistiche, con l’intento di essere un omaggio alla casa Savoia, per lui molto simile a quella degli Hohenzollern. In detto lavoro è riportata la storia del mugnaio Arnold di Sanssouci e della sua lotta per ottenere giustizia contro i soprusi di un nobile, ed è qui che è stata inserita l’esclamazione “Ci sarà pure un giudice a Berlino!”. Quindi, la vicenda è il resoconto di una storia successa realmente durante il regno di Federico II di Hohenzollern, detto il Grande (1712-1786).

            Il mulino dove lavorava Arnold era stato affittato alla sua famiglia da generazioni ed era di proprietà del Conte di Schietta. Un giorno del 1770 il Barone Von Gersdorf volle costruirsi una vasca per i pesci e deviò gran parte dell’acqua che alimentava il mulino. A causa di questo, il mugnaio non riuscì più a macinare il grano e a pagare l’affitto per il mulino, di fatto così votato lui e la sua famiglia all’indigenza e alla fame. Disperato si rivolse a vari giudici, nei diversi gradi di giudizio, ma essi, applicando, come spiegherò tra poco, ciecamente e parzialmente la normativa allora vigente – e probabilmente motivati maggiormente a ciò da promesse e regalie del proprietario del fondo – diedero sempre ragione al barone. Arnold decise di rivolgersi al giudice supremo, Federico II, andando fino a Berlino. Esaminando il caso, Federico diede ragione al mugnaio e condannò ad anni di ‘fortezza’ i giudici, anche se non emerge per quale delle ipotizzabili accuse: incompetenza o corruzione?

Una possibile interpretazione e un invito a riflettere

            Però, a prima vista e con l’intenzione di valutare oggettivamente i fatti esposti, non si può non prendere atto che i vari tribunali e giudici ai quali il mugnaio si rivolse, alla fine dei conti non fecero altro che applicare il diritto vigente che per altro traduceva il principio recepito dal diritto romano nel brocardo neminem laedit qui suo iure utitur (“chi esercita un proprio diritto non fa male a nessuno”), per cui non si darebbe responsabilità a livello civile o penale ad un soggetto che procuri un danno nell’esercizio di un suo diritto. In base a ciò i giudici decisero che il barone in quanto proprietario, faceva uso di una sua facoltà e che quindi il mugnaio non aveva alcun diritto. Dal resoconto ‘sembra’ quindi che il Re, decidendo la controversia, in questo specifico caso non si assoggettò ad alcun principio o norma giuridica scritta, anzi operò di fatto ‘arbitrariamente’ – rispetto almeno una parte del diritto positivo vigente – per quanto giusta potesse essere la sua decisione. Questa almeno ‘ sembra’ essere stata l’opinione prevalente in quel tempo.  Però, a questo punto, il lettore si starà giustamente domandando: in base a chi o a che cosa si può concludere che la decisione del Re fu giusta?

            Fu giusta, almeno per due motivi, entrambi oggettivi e verificabili rimanendo al resoconto dell’accaduto.

            Il primo lo ritroviamo rimanendo nell’ambito del diritto romano, che poneva un limite al soggetto che intendeva esercitare un proprio diritto, quello costituito da un altro principio di eguale rango, cioè quello del neminem laedere (“non fare del male a nessuno”) e quindi il divieto di ogni abuso nell’esercitare il proprio diritto: qui iure suo abutitur alterum laedit (“chi abusa dei suoi diritti danneggia un altro”). Proprio per questo fine il diritto romano prevedeva anche l’exceptio doli (eccezione che nella Costituzione italiana è rilevabile in qualche modo agli artt. 2 e 41). Forse proprio dalla non applicazione di quest’ultimo principio da parte dei vari giudici aditi, Federico II arrivò alla conclusione che erano stati corrotti: come potevano ignorare un tale principio e il suo comporsi con l’altro?

           La seconda motivazione, che in un certo modo fonda e giustifica la prima a livello morale (al di là e con buona pace di quanto affermato dalla scuola kantiana) consiste nel fatto che si dà nella realtà una gerarchia tra i vari diritti propri della persona. Gerarchia che non è possibile non riconoscere o della quale ci si ricorda solo quando non si sa a chi ricorrere, come spesso e volentieri è accaduto in molti celebri processi, specialmente dal XX sec. in poi. Infatti, nella fattispecie che ci occupa, il mugnaio venendo meno la fonte di reddito per la sua famiglia non avrebbe potuto provvedere ad un suo degno sostentamento con il rischio, visti i tempi, della sua vita e quella dei suoi cari. Ragione per la quale, a livello morale, avendo il diritto alla vita, ieri come oggi, il primato sul diritto di proprietà, sarà quest’ultimo cedere davanti ad un diritto di rango superiore, quale appunto quello alla vita di un essere umano.

 Conclusione … ma per continuare a pensare

Da quanto è dato sapere l’intervento di Federico II fece scalpore all’epoca e, come sempre, l’opinione pubblica si divise tra coloro che l’accusarono di illegalità e arbitrarietà e quelli che presero le sue parti, vedendo il lui il ‘monarca illuminato’, paladino della giustizia contro giudici corrotti o quanto meno ignoranti e ottusi. Nella realtà Federico II risolse da copetente il caso del mugnaio, alla luce di quei principi giuridici che sono la semplice manifestazione e traduzione positiva di un’esigenza della natura umana, tenendo insieme la vita, la dignità e la libertà insieme ai propri simili.

Però, al di là di tutto, qual è la lezione che possiamo imparare noi oggi, da ciò che ho cercato fin qui di esporre, brevemente e senza pretesa di alcun genere? Posso solo condividere cosa ho imparato personalmente ed ho proposto ai miei studenti di filosofia del diritto nei ventitré anni in cui l’ho insegnata. Il diritto e la giustizia non sono concetti astratti, nascono dalla ‘passione per l’uomo’, toccano la qualità della vita delle persone, non sono meri sistemi logici o calcoli che esigono la fedeltà ad assiomi o il seguire rigidi procedimenti, ma esigono attenzione al bene vero della persona che vive con altri suoi eguali la dimensione sociale che è loro propria. A guardare bene, semplicemente si ‘auto impongono’. Solo con questa passione si riconoscono le esigenze e i principi che regolano l’essere e l’agire degli uomini, come anche le regole, che sono allora comprese e vissute per quello che sono: la mia possibilità di essere libero con gli altri, nel rispetto della propria e altrui dignità. Un’attenzione che è stata sempre la nota distintiva nella tradizione del diritto canonico con l’istituto, tra gli altri, dell’aequitas che trova la sua giustificazione nello stesso Vangelo (cf Mt 7,12; Mc 2,23-28), non arrestandosi al ‘dare a ciascuno il suo’, limitandosi a una distribuzione nei termini ‘mio – tuo’, ma entrando nella relazione ‘io – tu’. Non si tratta solo di coerente e fredda procedura, di disincarnata applicazione delle norme senza distinzione, senza coniugarle tra di loro nel caso e nel soggetto concreti. Il folle soggettivismo etico e giuridico dei nostri giorni non può dimenticare che la libertà sacrosanta di ogni persona trova un limite fisiologico, invalicabile e che non è possibile ignorare, nei doveri verso gli altri, cioè nei cosiddetti interessi sociali, che sono in quanto tali di tutti, nessuno escluso, perciò anche di colui che può illudersi che non sia così. Ragione per la quale nessun principio o diritto naturale riconosciuto da qualsiasi Costituzione di un Paese, potrà essere invocato per annullare un altro diritto di uguale livello o addirittura di rango superiore.

Siamo senza dubbio chiamati a maturare su questi argomenti, evitando di ‘ragionare di pancia’ (se non addirittura di ‘estremità’, come mi ha suggerito una persona) ma cercando onestamente cos’è giusto non solo per me, ma per me insieme agli altri. Superando quell’atteggiamento riguardo la libertà, il diritto, la giustizia, che mi viene da qualificare ‘adolescenziale’, cioè che percepisce ogni cosa detta dagli altri, ogni regola, ogni norma, come un’imposizione, una dittatura che coarta la propria libertà, per entrare finalmente nell’età adulta dove si scopre che si può essere veramente liberi esclusivamente con e per gli altri, che le regole giuste sono per il bene di tutti, e non possono esserle solo per qualcuno, e che se si vive insieme con gli altri non si può prescindere dal loro rispetto, iniziando dal rispetto della verità su se stessi di cui ci si scopre meri amministratori. Però anche questo passaggio in ambito giuridico implica ‘crisi’ e sofferenze, come quelle che vede nella vita fisica una ragazza diventare donna e un ragazzo diventare uomo, cambiamento che non è questione meramente di anni o biologica, ma prima di tutto capacità di assumersi le proprie responsabilità, nella scoperta che non si hanno solo diritti, come i bambini che sono convinti che tutto è loro dovuto e perciò lo pretendono fino all’irrazionalità, ma anche dei doveri con l’assunzione dei quali solamente ci si può considerare veramente adulti.

Argomenti complessi, ma che interessano tutti e sempre, per questo postulano una continua riflessione. Per il momento credo sufficiente iniziare a prendere coscienza dell’esigenza di un vero giudice e, che se non a Berlino, sempre e comunque alla fine un vero giudice – il Giudice – ci sarà e, sicuramente non sarà un giustiziere, ma un ‘genitore’, ma questa è un’altra storia …

Basilica Santuario di Santa Maria del Sasso, Bibbiena (Arezzo), 18 gennaio 2022, Memoria liturgica di santa Elisabetta d’Ungheria, O. P. Vergine e Monaca domenicana “mediatrice di tranquillità e di pace fondata sulla giustizia” (Pio XII)

P. Bruno, O. P.


[1] L’affermazione “Ci sarà pure un giudice a Berlino”, pronunciata da un mugnaio che sperava in qualcuno che gli avrebbe reso giustizia, fa parte delle tante ‘leggende metropolitane’, che ai nostri giorni – evolvendosi e diffondendosi a macchia d’olio grazie ad internet – potremmo benissimo chiamare nella lingua madre ‘bufale mediatiche’, sicuramente più conosciute oggi come fake news alle quali, almeno all’inizio, quasi tutti finiscono per credere. Com’è il caso, per fare un altro esempio forse noto a pochi, della seguente: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Questa frase comunemente attribuita a Joseph Goebbels è a sua volta falsa. Per quanto è stato possibile verificare, la citazione fu usata dall’Office of Strategic Services statunitense, per descrivere il profilo psicologico di Hitler, il quale era convinto che: “… concentrate on one enemy at a time and blame him for everything that goes wrong; people will believe a big lie sooner than a little one; and if you repeat it frequently enough people will sooner or later believe it”. Di fatto, “Ci sarà pure un giudice a Berlino”, è certamente frutto di un’invenzione letteraria, venendo falsamente attribuita a B. Brecht a causa di una pseudo attribuzione da parte dello scrittore tedesco P. Hacks, che affermò di essersi ispirato all’autore di Vita di Galileo (composta da Brecht negli anni 1938-1939) nello scrivere nel 1958 il suo Der Müller von Sanssouci: ein bürgerliches Lustspiel (Il mugnaio di Potsdam: una commedia borghese), dal quale fu tratto un film muto: Die Mühle von Sanssouci del 1926.

In ogni modo a me non interessa qui tanto intrattenermi sulla veridicità storica di quanto narrato, ma di riproporre il racconto – generalmente usato nell’insegnamento della filosofia del diritto – con l’intento di tenere viva l’attenzione sull’importanza, per ogni persona che vive in una società, di comprendere correttamente la portata delle varie norme giuridiche. Questo per una loro razionale applicazione a livello individuale e comunitario allo stesso tempo, e per la loro rilevanza non riservata solo a coloro che s’interessano ex professo del diritto come i giuristi, ma che riveste un valore per ogni cittadino di questo mondo che, nel quotidiano – di ieri e di oggi e più volte – è chiamato a districarsi tra i diktat populisti, autoconvinti che ogni individuo abbia una libertà illimitata, infinita, e giustizionalisti, che si alimentano ad un formalismo giuridico quantomeno miope, ma sempre non privo di conseguenze che finiscono per condizionare negativamente singoli e comunità. Si pensi, solo per rimanere ad un passato non troppo lontano, al processo di Norimberga, oppure alle sentenze del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, per vari reati come il genocidio, crimini di guerra contro l’umanità durante nel periodo 1991-2001, e ai nostri giorni alle problematiche riguardo i vaxnon vax oppure a casi che toccano direttamente un individuo, ma indirettamente la soluzione, per ovvi motivi, avrà anche una ricaduta sociale, come il caso che ha riempito i giornali e i notiziari nelle ultime settimane del tennista serbo Novak Djokovic. Dove possiamo constatare quanta ragione avesse il filosofo francese G.-E. Debord (1931-1994) quando scriveva che la nostra epoca sta facendo sempre di più della vita delle persone (per non parlare dei processi …) un mero spettacolo, in un mondo trasformato sempre più nel palcoscenico di un teatrino.


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