Compagna o fidanzata e moglie? Compagno o fidanzato e marito? (Testo completo)


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Compagna o fidanzata e moglie? Compagno o fidanzato e marito? (IV. Conclusione)
2 Giugno 2020
“… il futuro della Chiesa verrà fuori dai nuovi santi …” (una ‘profezia’ di J. Ratzinger 1969).
1 Novembre 2020

Compagna o fidanzata e moglie? Compagno o fidanzato e marito? (Testo completo)


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Sommario: I. Introduzione; II. Cosa significa e perché fidanzarsi e sposarsi?; III. Partner: il significato ed il contesto propri di compagna/o ; IV. Conclusione.

Introduzione

            Il chiamare, il sentire o definire come compagna/o colei o colui che da sempre erano stati considerati come fidanzata/moglie o fidanzato/marito, è ai nostri giorni ormai comune. Addirittura ascoltando la radio o vedendo la televisione, ci si accorge che molte persone pur essendo sposate, religiosamente o civilmente, preferiscono usare i termini di compagna/o per evitare di apparire fuori tempo e forse fuori ‘posto’. Ovviamente nihil sub sole novum (Ec 1, 9) in quanto lungo il corso della storia, almeno della civiltà Occidentale, molteplici sono state le iniziative che hanno voluto ‘sdoganare’ l’amore tra una donna ed un uomo da ogni presunta limitazione istituzionale e riconoscimento legale, sentite come ‘costrizioni’. Rimanendo solo all’età moderna è possibile individuare: la Rivoluzione francese, lo ‘Statuto familiare’ in Russia del 1918, il Movimento del Sessantotto. Di fronte a questo tipo di avvenimenti e situazioni credo che la cosa più sensata ed intelligente da fare sia quella di chiedersi semplicemente: perché? Cercando di partire non da preconcetti o visioni ideologiche, ma semplicemente dalla realtà oggettiva, ricercando da ‘mendicanti’ quella verità che non ci appartiene in quanto non dipende dalla nostra volontà, ma che possiamo solo accogliere: “Veritas est adaequatio rei et intellectus” (S. Theol., I, 14, 1-2; Contra gent., I, 59; 62; De Veritate, I, 1). Con questa definizione san Tommaso d’Aquino non ha fatto altro che ricordare che la verità consiste nella corrispondenza fra l’intelletto e la cosa, ragione per la quale una parola è significativa, una proposizione è vera quando la mente coglie ciò che esiste, quando la mente si adegua ponendosi in una relazione di corrispondenza, con la realtà (cf http://www.padrebruno.com/perche-e-importante-recuperare-il-significato-delle-parole-che-usiamo-2/).

           Tutto ciò che sembrava un punto fermo ed incontrovertibile, fu contestato e messo in discussione dal XVIII sec. in poi con Kant, Fichte, Schelling, Hegel e dalla visione, in particolare di questi ultimi, del mondo che va sotto il nome di ‘idealismo’ (una ‘ideosofia’ piuttosto che una filosofia per J. Maritain, in quanto la ricerca prende ad oggetto l’idea e non l’essere) che riconduce totalmente l’essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà, ritenuta il riflesso di un’attività interna al soggetto. In altre parole: non è più l’essere che genera il pensiero, ma il pensiero che dà origine all’essere. Tenendo presente detta visione della realtà, della quale noi tutti siamo figli, possiamo iniziare a capire il perché della sistematica opera di sovvertimento dei significati delle parole, dove alla fine non dovremo un domani meravigliarci se chiameremo le mele, pere e le pere, mele! Una volta negata l’oggettività della nostra conoscenza con l’adeguarsi della nostra mente al mondo che ci circonda, tutto ed il contrario di tutto diviene se non possibile, almeno ipotizzabile e potenzialmente giustificabile per quel ‘soggettivismo radicale’ che ne è all’origine e produce tante verità quanti sono i soggetti interessati. Ognuno dà il significato che vuole alle parole che usa, ognuno si sente autorizzato e giustificato a fare quello che fa, per il semplice fatto che ‘sente’ essere la cosa giusta, e chi non accetta è semplicemente un asociale, qualcuno che ‘giudica’ solamente, che non capisce e non ‘accetta/ama’ gli altri per quello che sono (quindi non escludendo nessuno, neanche, per esempio chi sfrutta i poveri e nega giustizia agli innocenti). Quindi nient’altro che quella eterna tentazione del peccato originale (cf Gn 3, 1-5) di farsi Dio, quindi di pensarsi il creatore, dove alla fine l’io è il mondo ed il mondo è il proprio ‘io’. In un mondo così fatto, ovviamente non esiste ‘la verità’, ma ognuno ha le proprie convinzioni che gli altri devono semplicemente accettare (cf B. Esposito, La risposta cristiana al soggettivismo etico e giuridico, in http://www.settimananews.it/diritto/risposta-cristiana-al-soggettivismo-etico-giuridico/). La conferma di quanto però sia pericoloso questo modo di vivere e di pensare, l’abbiamo sotto i nostri occhi in questi primi giorni della così detta ‘Fase 2’ della pandemia da COVID-19. Dal Nord al Sud dell’Italia persone che si sentono in ‘diritto’ di avere la movida notturna, come se niente fosse successo, e non si curano che loro od altri potrebbero essere le prossime vittime. Lo stesso viene dato di pensare se si guarda, sempre in questi giorni, anche solo allo scenario europeo dove Stati ricchi ed in ogni caso considerati all’avanguardia nel welfare e tra i più ‘progressisti’ (termine anche questo stravolto: cf http://www.padrebruno.com/conservatore-progressista/), come Austria, Danimarca, Svezia e Olanda che guidano il fronte dei Paesi del Nord Europa, contrari alla mutualizzazione del debito che i Paesi dell’Unione stanno contraendo per questa pandemia, e così si oppongono alla solidarietà che è l’unico modo per uscire da questa crisi, data la globalizzazione.

Però, e qui iniziano i problemi in quanto siamo esseri che non possono vivere senza i propri simili, in un mondo del genere diventa impossibile comunicare, dialogare, confrontarsi, rispettarsi, amarsi veramente, cioè darsi per l’altro e non approfittare di lui. Uno dei segni incontestabili di questo stato di cose, come ho già accennato, è proprio lo stravolgimento delle parole che si usano quotidianamente, molte delle quali sono completamente sovvertite rispetto al loro significato vero ed originale. Operazione portata avanti, in modo ormai collaudato, sulle prime attraverso questo o quell’autore, qui o lì nei vari mezzi di stampa e di comunicazione, che oggi sono alla portata quasi di tutti, fino ad imporsi in modo quasi inconscio ed inconsapevole. Si pensi all’idea di ‘libertà’ che finisce dove inizia la libertà dell’altro, quando invece il vero concetto di libertà esige di essere vissuta insieme agli altri, oppure al termine ‘tolleranza’ usato nel senso di rispetto, quando invece comporta in sé un giudizio negativo sull’altro in quanto non si tollera ciò che è bene, e così via. Questo stato di cose che con il tempo (soprattutto con l’età nel senso del passare degli anni per ciascuno), spesso provoca, da una parte, sempre in più persone il desiderio di evadere, d’isolarsi da un mondo che sembra sempre di più impazzito, dove in mancanza di categorie e criteri oggettivi, ognuno ritiene ‘folle’ l’altro che non si comporta come lui o che non accetta le sue idee ed i suoi comportamenti. Si assiste anche alla formazione di vere e proprie ‘coalizioni’, lobby che aggregano coloro che hanno una determinata idea della vita, della morale, della politica, dell’economia, della finanza e vogliono imporre in un modo od in un altro la loro ‘visione’ della realtà agli altri, con le modalità e gli effetti che si possono facilmente immaginare. Davanti all’impressione di questa follia collettiva la tentazione di molti è quella di alzare le mani, di accettare ciò che sembra l’ineluttabile, anche perché ogni tentativo di reazione sembra essere sentito come destinato a fare la fine di Don Chisciotte contro i mulini a vento. A conferma di quanto scritto, consiglio caldamente di leggere quanto riportato in un messaggio postato in data 14 maggio su facebook nel quale, tra l’altro si propone di sostituire boyfriend/girlfriend con partner, husband/wife con spouse: https://www.facebook.com/photo/?fbid=10158625430450820&set=a.89524425819. Questi tentativi di forgiare una ‘lingua nuova’, che sembrano una vera e propria ossessione, non provano neanche a nascondere la volontà di ‘ricreare’ il mondo ad immagine e somiglianza della cultura dominante, espressione di quei centri di potere che usano le masse, promettendo loro libertà, ma di fatto facendone dei ‘dipendenti’ se non degli schiavi (cf 2 Pt 2, 19).

L’impressione che il mondo non sia altro che un immenso manicomio è stato usato da più di qualche autore in letteratura. In una di queste opere, di cui non ricordo né l’autore e né il titolo, lessi che passando fuori da un manicomio il protagonista si chiedeva sempre da quale parte fosse il chiavistello che serrava la porta per non uscire! D’altra parte questo oggi, rimanendo in Italia, non sarebbe possibile in quanto dal 1978 con la L/180 (così detta Legge Basaglia), i manicomi sono stati formalmente aboliti, anche se, ovviamente la legge non ha potuto abolire la malattia mentale, ma questo è un altro discorso. Questa presa d’atto mi ha sempre spinto (e con questo vi propongo un ulteriore passo in avanti nella riflessione), ad accettare con convinzione il ‘principio di realtà’ dal quale bisogna sempre partire anche se con la tecnica si può manipolare o cambiare (altro discorso è se questo è sempre un bene). Altrimenti si corre il rischio che ha segnato la vita di qualche dittatore che non capiva come fosse possibile che la natura non si conformasse al suo piano quinquennale dei raccolti agricoli! Proprio in riferimento al principio di realtà, ricordo un bellissimo film, Cast Away, uscito nel 2000, diretto da Robert Zemeckis che aveva come attore protagonista un insuperabile Tom Hanks e per colonna sonora una toccante composizione di Alan Silvestri. È la storia di un manager di una grande compagnia, che vive per il suo lavoro, in un ambiente super tecnologizzato, e che per un incidente aereo vive per più di quattro anni come naufrago in un’isola sperduta del Pacifico, con la sola compagnia del ricordo della donna che amava e della presenza di un pallone, che diventa il suo unico amico, l’amico Wilson (nome della marca). Ciò che mi colpì di più di questo film fu proprio il rifiuto iniziale del protagonista di accettare la realtà. Tutto ciò che nella sua vita di ogni giorno fino ad allora sembrava scontato o dovuto, nell’attuale situazione andava lentamente conquistato. Simboliche, tra le tante, due scene: nella prima che lo vede nell’isola impegnato per settimane a cercare di accendere il fuoco con la frizione di due pezzi di legno, nella seconda, dopo il suo salvataggio ed il suo ritorno a casa, quando dopo la festa di ben tornato da parte dei suoi colleghi, rimane solo ed accende e spegne in continuazione un accendino, quasi un gesto automatico, che invece quando era sull’isola gli aveva procurato delle dolorosissime vesciche.          

Queste considerazioni introduttive possono sembrare esagerate o pesanti come macigni, ma proprio per questo ho deciso di proporle affinché ogni lettore ne possa dare una valutazione oggettiva e pacata, al di là di chi l’ha scritte (cf San Tommaso, S. Theol., I-II, 109, 1 ad 1). D’altra parte mi sembrava doveroso dare qualche indicazione previa prima di affrontare proprio questo sovvertimento o confusione che si voglia dire, almeno a mio sommesso avviso, dei termini indicati nella presente riflessione. Visto che farò in questa riflessione più volte riferimento al valore ed al significato del linguaggio, mi sembra opportuno ricordare previamente qualche nozione di base. In genere si distinguono tre tipi di linguaggio: 1) aletico; 2) valutativo; 3) deontico.Nel linguaggio aletico (dal greco alétheia, verità), si danno proposizioni che affermano essere vero o falso un ente, un fatto, una situazione: questa è una banconota di 10 €; io sto leggendo; io sono figlio di mia madre. Poi abbiamo delle proposizioni che fanno parte del linguaggio valutativo, che contengono un giudizio di apprezzamento o meno su un ente, su un fatto, su una persona: questo film è bello; fare la carità è un bene; l’amicizia è un bene unico. Infine abbiamo il linguaggio deontico (dal greco to déon, ciò che è da fare), del quale fanno parte le proposizioni che stabiliscono ciò che si deve o non si deve fare: i cittadini devono pagare le tasse; non si deve uccidere la persona innocente (cf S. Cotta, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomelogia giuridica, Milano 19912, p. 190).

Per evitare un testo troppo lungo ho deciso di dividerlo, come si evince dal sommario, in quattro parti che pubblicherò, spero, settimanalmente. Avendo iniziato a scrivere queste righe nel giorno in cui ricorre il Centenario della nascita dell’indimenticabile san Giovanni Paolo II (18 maggio 1920-2020), ex studente dell’Angelicum nel quale conseguì il Dottorato in Teologia nel 1948, mi vengono alla mente due sue affermazioni che desidero consegnarvi a conclusione di questa introduzione e nell’attesa di ritrovarci prossimamente. “Ma se c’è in me la verità, deve esplodere. Non posso rifiutarla, rifiuterei me stesso” (K. Woityla, Nascita dei confessori). “Non si può pensare solo con un frammento di verità, bisogna pensare, con tutta la verità” (K. Woityla, Fratello del nostro Dio). Nella consapevolezza che: “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, … (Gv 16, 13).

II. Cosa significa e perché fidanzarsi e sposarsi?

In pillole il contenuto del presente paragrafo: Il vero amore è un desiderio, un anelito, quasi il bisogno di ogni persona che in quanto tale non solo ha un bisogno effettivo dell’altro, ma soprattutto sente un bisogno affettivo i cui livelli più alti sono rappresentati dall’amicizia e dall’amore sponsale. La dinamica di una vera relazione d’amore tra una donna ed un uomo è una realtà complessa che non può essere limitata al sentimento, alle emozioni destinate inesorabilmente a trasformarsi o addirittura a passare. In questo paragrafo si riassume schematicamente detta dinamica (compiacenza, concupiscenza, reciprocità, simpatia, amicizia, amore sponsale), e si prende atto che un tale tipo d’amore non può non impegnarsi in un rapporto in cui l’io ed il tu si fondano in un noi per la vita. Un tale impegno d’amore tra una donna ed uomo, pur essendo una realtà intima e personale per le persone coinvolte, nella quale non è possibile entrare, a nessuno ed in nessuna circostanza, ha delle conseguenze a livello sociale, sia civile che ecclesiale, ed anche per quanto riguarda la dimensione di fede. Da qui il senso non solo dell’opportunità, ma della necessità di una ratifica pubblica di questo impegno insieme che, come tutti sappiamo, non è mai una ‘telenovela’ e soprattutto non è mai ‘una rosa senza spine’. Questa è una verità ed allo stesso tempo un mistero come il ‘pathei mathos’ dell’Inno a Zeus nell’Agamennone di Eschilo: dalle sofferenze si può solo imparare, anzi si deve imparare per crescere e diventare così persone moralmente adulte, questo vale in modo particolare in un rapporto d’amore.

Ovviamente il riflettere sul significato di termini come compagna/o fidanzata/o trova il suo senso in riferimento ad un determinato tipo di relazione. Per evitare equivoci e fraintendimenti, mi sembra opportuno chiarire subito che prenderò qui in considerazione solo la relazione d’amore che si dà fra una donna ed un uomo, che reciprocamente si accolgono e si donano in una scelta permanente di vita ed aperta alla vita. Quindi nient’altro di ciò che verifichiamo essere parte della natura e dell’identità delle persone. Natura ed identità che il cristianesimo ha sempre riconosciuto, accolto anche se nella consapevolezza delle sue ferite, ma ancora di più certa della salvezza operata da Cristo, dalla sua opera di redenzione che, attraverso l’opera della Grazia eleva la natura, la perfeziona sanandola ed elevandola al piano soprannaturale (cf S. Theol, I, 1, 8, ad 2). Tutto ciò è chiarissimo riguardo al matrimonio, che non è una invenzione del cristianesimo, ma non è altro che il patto “… con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla generazione e educazione della prole, tra i battezzati è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento” (CIC/83, can. 1055, § 1). Questo paragrafo del Codice di Diritto Canonico sintetizza ciò che non è altro che la realtà che vede intrinsecamente in relazione, pur nella distinzione, del piano naturale e di quello soprannaturale: il matrimonio è un istituto naturale che con il tempo è stato disciplinato in ambito civile e religioso con norme aventi forza giuridica, divenendo così anche un istituto giuridico. Questo istituto naturale, da Cristo è stato elevato a canale della grazia, facendone uno dei sette sacramenti, che la competente autorità nella Chiesa cattolica ha provveduto a normare lungo il corso dei secoli, ma sempre nella fedeltà a quello che il matrimonio è (e non potrebbe non essere, se non divenendo qualche altra cosa), a livello naturale e sacramentale.

Di seguito mi limiterò ad affrontare la complessa problematica limitandomi a quanto questa relazione richiede ed esige per sé, e non perché imposto da qualcuno. Quindi non prenderò direttamene in considerazione ciò che è richiesto al battezzato consapevole della sua fede, cioè che questo impegno non potrà che realizzarsi con la celebrazione del sacramento del matrimonio. Quindi di seguito mi limito a  dei brevi spunti di riflessione, quasi tessere da mettere insieme per formare un mosaico non da ammirare come un capolavoro del passato, ma da vedere, comprendere al fine di realizzarlo nella sola vita che ci è data di vivere (cf Salmi 114, 5 e 134, 16; Sap 4, 14; Ez 12, 2), con nessuna pretesa di esaustività ed ancora mendo di originalità e scientificità, ma come un semplice invito a chi legge ad intrattenersi su di essi con mente libera ed aperta affinché ciascuno possa arrivare a delle conclusioni secondo verità (v. linguaggio aletico nell’introduzione).

            La prima tessera che propongo, che di primo acchito potrebbe sembrare fuori luogo, è invece lo ‘sfondo’ dell’intero mosaico, e riguarda un aspetto fondamentale, non tenuto nella dovuta considerazione. Mi riferisco alla dinamica del nostro agire, in parole povere: perché scegliamo una cosa invece che un’altra? Anche se molti non se ne rendono conto, sempre a fondamento dell’agire c’è un fine che ci si propone di raggiungere. Questo fine provoca il nostro agire nella misura in cui abbiamo l’intenzione di raggiungerlo, di realizzarlo, quindi il fine è il primo nell’intenzione di chi agisce, anche se sarà l’ultimo nella realizzazione, nel conseguirlo. In questo modo il fine causa gli atti umani, ne specifica la natura e costituisce il criterio in base a cui si possono valutare. Il fine, dunque, ha la dimensione di causa nell’agire delle persone (cf S. Th., I-II, 1, 1, ad 1), ma allo stesso tempo ne costituisce la conclusione, così come lucidamente sottolinea san Tommaso: “… gli atti sono detti umani in quanto procedono da una volontà deliberata. Ma l’oggetto della volontà è il bene ed il fine. È perciò evidente che il fine costituisce il principio degli atti umani in quanto tali. E così pure ne costituisce il termine: infatti l’atto umano ha il suo termine in ciò che la volontà persegue come suo fine” (S. Th., I-II, 1, 3).

            Chiarito previamente, che sempre all’origine del nostro agire e delle nostre scelte c’è un bene colto come un fine da conseguire, dobbiamo ora vedere nella seconda tessera, le dinamiche che portano una donna ed un uomo ad innamorarsi tanto da voler realizzare una comunione di vita.

Su questo punto ed in quelli successivi di questo secondo paragrafo, farò libero riferimento al testo di Karol Wojtyla, riconosciuto santo da Papa Francesco nel 2014, Amore e responsabilità (pubblicato per la prima volta nel 1960), tematiche riprese da Pontefice nelle Catechesi del mercoledì negli anni 1981-1983. Alla luce di quanto sopra evidenziato, possiamo individuare l’aspetto che ci permette di procedere nell’assemblaggio di questo mosaico dell’amore sponsale: l’amore è sempre un rapporto reciproco di persone, un rapporto fondato a sua volta sul loro atteggiamento individuale e comune nei confronti del vero bene per loro. L’amore tra una donna ed un uomo non è altro che uno specifico tipo d’amore, esso s’imprime profondamente nella psiche di ambedue e resta legato alla vitalità sessuale dell’essere umano. Ma l’amore umano non si riduce a questi aspetti né s’identifica con essi in quanto si distingue per essere una relazione tra persone, quindi con un carattere personale.

Il primo elemento che si percepisce in questa relazione è quello della compiacenza, il presentarsi, reciproco, dell’altra e dell’altro appunto come un bene dal quale si è attratti. Quindi, a ben vedere, non è infondato affermare che siamo scelti dall’amore e non siamo noi a scegliere chi amare. Il modo immediato (da qui il così detto ‘colpo di fulmine’ o ‘cotta’), con cui tale compiacenza si manifesta, implica diversi fattori, ma con un ruolo determinante della tendenza sessuale, proprietà e forza della natura umana che in quanto tale deve essere vissuta, cioè come sessualità propria dell’uomo (cf http://www.padrebruno.com/amore-sesso/). Evidentemente l’attrazione per compiacenza, per non rimanere un vuoto sentimento, esige di essere verificata attraverso la mutua conoscenza, alla luce di un complesso di esperienze viste e vissute secondo verità, che va a confermare o meno l’amore oblativo per l’altra/o. In altre parole: non sarebbe vero amore, ma mera dipendenza chi fosse disposto a farsi schiavizzare dall’altra/o, perché la compiacenza è strettamente legata all’ambito dei valori. In una relazione d’amore tra una donna ed un uomo l’attrazione comporta che l’altro non deve apparire solo come ‘un bene’, ma il vero bene, l’uno per l’altra. Il problema è che nella maggioranza assoluta dei casi l’oggetto della compiacenza appare ad ognuno come un bene ed allo stesso tempo come bello. Infatti, è fondamentale tenere presente in modo particolare in questo nostro tempo contrassegnato dal dominio della bellezza e della prestanza fisica che: “La compiacenza sulla quale si fonda questo amore non può nascere dalla sola bellezza fisica e visibile, ma bisogna che abbracci in profondità la bellezza integrale della persona [con il primato di quella interiore]” (Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 536).

Il secondo elemento di una tale relazione è dato dall’amore come concupiscenza, intendendo propriamente con questo termine che l’amore si traduce anche attraverso il desiderio che fa parte dell’amore come la compiacenza, anzi spesso vi predomina. Infatti, l’essere uomo o donna, il sesso di ciascuno, è una certa limitazione dell’essere che tende a completarsi reciprocamente. Questo bisogno oggettivo dell’altra/o si manifesta anche attraverso la tendenza sessuale, quindi con un amore di concupiscenza (cosa diversa è la mera concupiscenza che si risolve nel proprio soddisfacimento) in quanto nasce e tende a trovare il bene che lo completa. “Il soggetto che ama è cosciente della presenza di questo desiderio, sa che la concupiscenza resta, per così dire a sua disposizione, ma se cerca di perfezionare il proprio amore, non lascerà che essa prevalga su tutto ciò che questo amore contiene in più di quel desiderio. Sente anche se non comprende che una tale egemonia del desiderio deformerebbe il loro amore e ne priverebbe entrambi” (ivi, p. 538).

L’amore tra una donna ed un uomo che non andasse al di là della compiacenza e della concupiscenza sarebbe però inevitabilmente incompleto, non sarebbe realizzato nella sua pienezza. Infatti, non è assolutamente sufficiente desiderare l’altra/o come un bene per me, ma soprattutto volere il suo vero bene. Il vero amore è ‘benevolente’ (è il terzo elemento; altrimenti sarebbe un surrogato, nient’altro che il travestimento dell’egoismo), non si limita a desiderare l’altra/o come un bene per sé, ma desidera ciò che è il vero bene dell’altra/o. Un tale amore è evidentemente connotato dalla reciprocità che fa sì che l’amore non sia un qualcosa che è proprio alla donna ed all’uomo in sé, altrimenti si darebbero due amori, ma è ciò che ne fa una realtà nuova ed unica. Quindi un ‘io’ ed un ‘tu’ che si scoprono ‘noi’. Questo significa che l’amore non può essere a ‘senso unico’, unilaterale, è interpersonale e non individuale. Però: “Perché nasca il ‘noi’, il solo amore bilaterale non basta, perché in esso malgrado tutto, ci sono due ‘io’, sia pur pienamente disposti a diventare un solo ‘noi’. È la reciprocità che, nell’amore, decide della nascita di questo ‘noi’. Essa prova che l’amore è maturato, è diventato qualcosa tra le persone, ha creato una comunità, ed è così che si realizza pienamente la sua natura” (ivi, p. 542). Ovviamente, benevolenza e concupiscenza non solo non si escludono, ma sono chiamati ad una corretta integrazione, anzi il reciproco amore, quando è maturo, è disinteressato anche nel soddisfacimento della concupiscenza. La prova di quanto sia importante la reciprocità l’abbiamo quando non si è sicuri della fedeltà dell’altra/o e diventiamo ‘gelosi’, situazione che si supera con l’impegno personale di benevolenza di ciascuno dei due che dà carattere di certezza alla reciprocità. Essere sicuri dell’amore dell’altro è fonte di gioia e pace per chi ama ed è parte dell’essenza dell’amore, cosa che non si dà se il rapporto si basa sulla mera concupiscenza, se si fonda su due egoismi. Per questo è fondamentale, cosa di cui oggi pochi si rendono conto, che: “… bisogna sempre ‘verificare’ l’amore prima di dichiararlo alla persona amata, e soprattutto di riconoscerlo come vocazione, e cominciare a costruire su di esso la propria vita. Bisogna soprattutto verificare quello che c’è in ciascuna delle persone co-creatrici dell’amore e, di conseguenza, anche quel che c’è tra loro. Bisogna soprattutto verificare su che cosa si fonda la reciprocità [in che misura il bene dell’altro od il proprio piacere] e se essa non sia solo apparente. L’amore può durare soltanto come unità in cui si manifesta il ‘noi’, ma non come combinazioni di due egoismi, in cui si manifestano due ‘io’” (ivi, p. 545).

Un quarto elemento è dato dalla ‘simpatia’ (etimologicamente: provare insieme), intendendo con questa l’attrazione che si ‘sente’ per l’altra/o, che spesso e volentieri prende il sopravvento sulla volontà a prescindere dalle qualità oggettive dell’altra/o, cosa che la rende debole, ma allo stesso tempo conferisce all’amore tra le persone una forza unica. Questo perché: “L’amore è un’esperienza vissuta e non soltanto una deduzione. […] Grazie alla simpatia, essi sentono il loro amore reciproco, senza di essa si sviano e si ritrovano in un vuoto altrettanto sensibile. Per questo sembra loro in genere che l’amore finisca nel momento stesso in cui scompare la simpatia. Tuttavia l’amore nel suo insieme non si limita alla simpatia, come la vita interiore della persona non si riduce all’emozione né al sentimento, che ne sono solo gli elementi. Un elemento più profondo e di gran lunga più essenziale è la volontà, chiamata a modella l’amore nell’uomo e tra gli uomini. È importante fare questa constatazione, perché l’amore fra la donna e l’uomo non può arrestarsi a livello della simpatia: bisogna che diventi amicizia. […] L’amicizia e la simpatia dovrebbero compenetrarsi senza intralciarsi. In questo consiste l’’arte’ dell’educazione dell’amore, la vera ars amandi. È contrario alle sue regole permettere che la simpatia (particolarmente evidente nel rapporto uomo-donna, in cui si ricollega a un’attrazione sensuale e carnale) obnubili il bisogno di creare l’amicizia e in pratica la rende impossibile. In questo, a quanto pare, risiede spesso la causa di diverse catastrofi e fallimenti ai quali è esposto l’amore umano. […] Benché soggettivo, perché radicato nei soggetti, l’amore deve essere esente da soggettività. Bisogna che sia nel soggetto, nella persona, ma abbia un aspetto oggettivo. Proprio per questo, non può limitarsi ad essere simpatia: bisogna che sia amicizia. Ci si può rendere conto della maturità dell’amicizia verificando se essa si accompagni alla simpatia, o più ancora, se vi sia totalmente subordinata e non dipenda esclusivamente da emozioni e affetti, se sussista al di fuori di essi, oggettivamente, nelle persone e tra esse. Allora soltanto si può fondare su di essa il matrimonio e la vita comune degli sposi” (ivi, pp. 547; 550). Quindi scelta volontaria e permanente e questo a differenza di quanto avviene nella mera simpatia, dove giocano un ruolo predominante i sentimenti e le emozioni: senza la simpatia l’amore è freddo e senza l’amicizia la simpatia si rivela essere vuota e sfuggente!

Alla luce di quanto fin qui detto, appare alquanto evidente che non si può basare esclusivamente una relazione d’amore, sul sentimento, sulle emozioni, ma è necessario un amore che vuole il vero bene dell’altro che è allo stesso tempo il vero bene di/per chi ama. Tutto ciò non s’improvvisa, ma ha bisogno di tempo per maturare attraverso una conoscenza reciproca ed un cammino insieme, proporzionato alla maturazione del rapporto che si realizzerà sempre di più solo in un ‘io’ ed un ‘tu’ (non un ‘mio’ ed un ‘tuo’ come vedremo nel successivo paragrafo), che si sentono fusi in un ‘noi’. Solo dandosi questi presupposti ha senso pensare e parlare, prima di tutto, di ‘fidanzamento’, che ha una funzione specifica e propria che è possibile recuperare già guardando all’etimologia: fidanzarsiderivato da fidanza = der. di fidare, per adattam. del fr. ant. fiance, der. di fier, che ha lo stesso etimo e le stesse accezioni, appunto, dell’ital. fidare, fiducia; inteso in genere scambiarsi una promessa di matrimonio o, più comunemente, intraprendere una relazione amorosa (cf Treccani). Quindi alla base c’è la presa di coscienza che il bene dell’altro è importante e questa reciproca fiducia porta ad impegnarsi liberamente, ma non in una asettica ‘prova’ contrassegnata da un atteggiamento di verifica secondo le categorie dell’utilità e della convenienza (mi è utile, mi conviene l’altra/o?), ma in vista di realizzare ciò che costituisce allo stesso tempo un desiderio ed una promessa (v. fidanzata/opart. pass. di fidanzare: chi si è impegnato con una promessa di matrimonio).

La stessa realtà è contenuta in quello che da sempre è stato ritenuto il naturale approdo per una donna ed un uomo che sono arrivati alla conclusione che il loro è un vero amore: il matrimonio, lo sposarsi. Anche rispetto a questi termini, uno sguardo all’etimologia delle parole ci aiuta a recuperare la verità di questa realtà nella vita di diretti interessati, ma anche per la società civile e per la loro fede. Infatti matrimònioderiva dal lat. matrimonium, der. di mater -tris ‘madre’, colei che genera, sottolineando così una delle finalità dell’amore. Istituto giuridico mediante cui si dà forma legale (e rispettivam. carattere sacro) all’unione fisica e spirituale dell’uomo (marito) e della donna (moglie) che stabiliscono di vivere in comunità di vita al fine di fondare la famiglia. Di uguale significato e contenuto i termini: sposare, dal lat. tardo sponsare, intens. di spondēre ‘promettersi a…’; coniuge, dal lat. coniux-ŭgis, der. di coniungĕre ‘congiungere’ (cf Treccani).

Infine, la terza tessera del nostro mosaico, consiste nel prendere atto delle esigenze che un tale tipo di relazione implica. Anche se l’amore tra una donna ed un uomo si forma a livello individuale attraverso l’attrazione, la concupiscenza e la benevolenza, esso si realizza pienamente tra e con i due, si realizza insieme, non una volta per sempre, ma ogni momento, o semplicemente non si realizza, perché non si dà. Infatti, quando si dice che il matrimonio è ‘la tomba dell’amore’, si deve intendere che i due hanno creduto o pensato che ormai era tutto fatto una volta sposati, non rendendosi conto che il matrimonio è sempre un continuo inizio, una scoperta sempre più matura dell’altra/o che non dispensa da gesti e parole che manifestano questo amore e lo fanno crescere, specialmente nella condivisione e nel confronto quotidiano. Altrimenti, con il passare del tempo si ritroveranno due estranei che convivono nello stesso appartamento, condividono cose, persone, magari interessi, ma non la vita. Invece l’amore tra una donna ed un uomo non è un ente di ragione, teorico ed astratto, un ufo non bene identificabile, ma è propriamente un incontro ed una unione tra loro, è sempre sintesi interpersonale, condivisione intima, fatta di complicità ed attenzione unica all’altra/o. Dandosi e realizzandosi tutto questo, con l’onesto desiderio che crescano e si fortifichino con il tempo, è naturale che i due vogliano ‘sposarsi’, per essere non due, ma una sola, nuova realtà, con una scelta permanente di vita che ratifica di fronte a Dio ed alla comunità. Questo perché anche se è una scelta d’amore, che riguarda il santuario più intimo degli interessati, essa avrà effetti per gli eventuali figli e per la società stessa. Di fatto, dato verificabile ed introvertibile che non può essere ignorato, tutte le popolazioni oggi note, comprese le più primitive, usano il ‘matrimonio’ come legame socialmente riconosciuto tra individui, confermando così il suo essere un’istituzione universale comune a tutti i popoli e a qualsiasi livello di civiltà (cf, per es., Codice di Hammurabi, che regnò in Mesopotamia dal 1792 al 1750 a. C.).

Di fatto, l’amore sponsale è diverso da tutti gli altri tipi di amore visti, in quanto consiste nel dono del proprio ‘io’, che implica molto di più del semplice ‘voler bene’ che si dà nell’amicizia. Ma cosa significa donarsi in questi termini? Può una persona donarsi ad un’altra? Pur essendo ogni persona ‘padrona di se stessa’, essa non può donarsi. Infatti, “La natura della persona si oppone al dono di sé. Infatti, nell’ordine della natura, non si può parlare di dono di una persona all’altra, soprattutto nel senso fisico della parola. Ciò che vi è di personale in noi è al di sopra di ogni forma di dono, qualunque essa sia, e al di sopra di una appropriazione in senso fisico. La persona non può, come una cosa, essere proprietà di altri. Di conseguenza, è altrettanto escluso che si possa trattare la persona come un oggetto di godimento utilitaristico …” (ivi, pp. 553-554). Ma ciò che è impossibile a livello fisico, si realizza con l’amore ed in senso morale, grazie al quale una persona può donarsi all’altra o/ed a Dio, e proprio in forza di questa donazione piena ed incondizionata si dà l’amore sponsale. Questo tipo d’amore porta con sé delle intrinseche esigenze che, al di là dei ricorrenti tentativi della cultura dominante di pensarle come retaggio del passato, sono evidenti. Dette intrinseche esigenze sono i così detti: a) i fini di questo amore che è l’amore dei coniugi con la sua naturale apertura alla vita dei figli, per l’assicurazione di una sana crescita ed educazione all’interno di una stabile unione; b) le proprietà unità ed indissolubilità del matrimonio, in quanto il vero amore è per sé infinito e mai può essere pensato come un contratto a tempo determinato. Fini e proprietà che non sono una ‘fissazione’ della Chiesa cattolica che crede ancora in quella ‘befana’ che è la legge naturale, ma mere esigenze del cuore che ama e chi ne ha fatto almeno una volta l’esperienza sa bene di che cosa si sta parlando: contra factum non valet argumentum!

III. Partner: il significato ed il contesto propri di compagna/o

In pillole il contenuto del presente paragrafo: se si vuole rimanere ad un uso veritiero, coerente e significativo dei termini compagna/o è importante riconoscere che il loro proprio contesto si distingue per essere una relazione che ruota di fronte ad attività ed interessi comuni che non impegnano la propria vita per l’altra/o. Si rimane ad un livello di ‘mio-tuo’ che può risolversi tutt’al più in un ‘nostro’. Dalla conseguente presa d’atto di un tale significato si evidenzia un paradosso che dovrebbe risvegliare le coscienze.

Se, come abbiamo cercato di evidenziare nel paragrafo precedente, è insito in una vera relazione d’amore tra una donna ed un uomo, il desiderio e quasi il ‘bisogno’ di un impegno pieno ed indeterminato, che senso ha chiamare l’altra/o compagna/o? La domanda non è oziosa e la risposta non è priva di conseguenza in quanto, a mio sommesso avviso, è indice del livello e della qualità della relazione stessa. Quindi in questo paragrafo vorrei semplicemente ricordare qual è il contesto proprio in cui nasce ed ha senso parlare di compagna/o.

Anche in questo caso, il partire dall’etimologia ci fornirà delle utili tracce da seguire per arrivare a quanto ci siamo proposti. Il termine compagno (e quindi ovviamente anche il derivato compagna), deriva dal lat. mediev. companio -onis, der. di panis, col pref. con-, quindi con il significato proprio di colui che mangia il pane con un altro. In riferimento a questo significato originario, leggiamo nel vocabolario Treccani “1. [chi si trova insieme con altri in particolari circostanze o per un lungo periodo della vita, o esercita la medesima attività, o vive nello stesso ambiente] partner, [di lavoro] collega, (lett.) condiscepolo. [chi è cointeressato in una società commerciale o industriale] socio. e. [chi appartiene alla stessa associazione] consocio, (lett.) sodale. fratello. f. [chi appartiene alla stessa religione, anche fig.] compagno di fede, correligionario. g. [chi appartiene alla stessa associazione criminosa o ha partecipato con altri all’esecuzione di un’azione criminosa, [compagno di merende] …” (http://www.treccani.it/vocabolario/compagno2_Sinonimi-e-Contrari). Interessante anche il significato del termine partner che è ormai entrato nel vocabolario italiano: “partner ‹pàatnë› s. ingl. [alteraz. di parcener, dal fr. ant. parçonier, lat. mediev. partionarius, partitionarius; cfr. parzioniere] (pl. partners ‹pàatnë∫›), usato in ital. al masch. e al femm. – Compagno, o compagna, e spec. ciascuno dei componenti una coppia in spettacoli, giochi, sport o altre attività. […] Con accezioni più ampie, riferito a soci in un’impresa commerciale, a partiti alleati, a paesi che intrattengono relazioni economiche o anche a nazioni legate da un’intesa politica o militare” (http://www.treccani.it/vocabolario/partner/). 

            Quindi già nel suo significato originario si palesa in modo evidente quello che è il contesto in cui ha senso usare il termine compagna/o. Contesto che possiamo riassumere in quel tipo di relazione che vede protagonisti il ‘mio’ ed il ‘tuo’ e quindi contrassegnato da interessi comuni, comune utilità, reciproca convenienza o condivisione di una qualche realtà, tutte cose in sé più che positive ed encomiabili, ma che in ogni non si richiede e non si dà quella ‘comunione’ che desidera fondersi in un ‘noi’, che abbiamo visto contrassegna ed identifica l’amore sponsale. Il punto è proprio questo: l’uso di compagna/o trova il suo proprio in una relazione che oggettivamente non ha il livello e l’intensità, la pienezza che hanno, come abbiamo visto, l’amicizia e l’amore sponsale. Nella puntuale analisi dell’amore umano fatta nel testo di K. Wojtyla, a cui mi sto riferendo in questa riflessione, si parla appunto di una caratteristica, che aiuta a chiarire la differenza, nelle relazioni tra persone che egli indica con il termine cameratismo. Dopo aver notato che esso può avere un ruolo importante nello sviluppo del rapporto d’amore tra una donna ed un uomo, chiarisce la differenza con la simpatia e l’amicizia. “Differisce dalla prima perché non si limita alla sfera emotivo-affettiva della persona, ma si fonda al contrario su basi oggettive come il lavoro comune, i compiti comuni, gli interessi comuni, ecc. E differisce dalla seconda, perché l’’io ti voglio bene non ha ancora posto in esso’. Così, ciò che caratterizza è un elemento di comunità su elementi oggettivi. […] L’amicizia reciproca ha un carattere interpersonale che si esprime attraverso questo ‘noi’. Questo è già evidente nel cameratismo, benché manchino ancora quella coerenza e quella profondità che fanno parte dell’amicizia. Il cameratismo può legare tra loro più persone, l’amicizia si limita piuttosto a un piccolo numero. Le persone legate dal cameratismo costituiscono in genere un ambiente, il che lo caratterizza come fenomeno sociale. Di qui la sua importante funzione nella formazione dell’amore reciproco, se questo, una volta maturo, deve condurre al matrimonio e diventare il fondamento di una nuova famiglia: le persone capaci di vivere in un gruppo, capaci di crearlo sono senza dubbio ben preparate a conferire alla propria famiglia il carattere di un gruppo solidamente unito, in cui regni una positiva atmosfera di vita comune“ (Amore e responsabilità, pp. 551-552).

            Da quanto fin qui evidenziato sembra allora abbastanza chiaro che ha senso usare i termini di compagna/o solo in riferimento ad un certo tipo di rapporti tra le persone. Rapporti che possono benissimo comportare affetto, affinità elettive e d’interessi, ma non fino al punto di essere quel qual cosa di più. Ha senso parlare di compagna/o quando si condivide un banco di scuola, un hobby o si è membri di una stessa squadra in qualche sport, oppure si è soci in qualche società, ma niente di più profondo ed intimo che non possa essere misconosciuto in un attimo per qualsiasi ragione o per qualsiasi cavillo burocratico.

IV. Conclusione

           Dopo aver ricordato da una parte la dinamica di una vera relazione d’amore tra una donna ed un uomo e dall’altra il significato ed il contesto in cui ha senso usare i termini compagna/o, è evidente il non senso di usare questi termini per un contesto oggettivamente diverso e superiore. Significa questo un giudizio negativo verso coloro che usano questi termini in modo oggettivamente improprio o hanno fatto la scelta di avere una compagna/o invece di una fidanzata/o o moglie/marito? Nel modo più assoluto no! Queste riflessioni vogliono soltanto essere uno stimolo non solo ad usare in modo proprio le parole ( cf http://www.padrebruno.com/perche-e-importante-recuperare-il-significato-delle-parole-che-usiamo-2/), ma anzitutto riappropriarci della verità della realtà che non è frutto della nostra volontà e non può essere stravolta dalle mere emozioni. Riguardo a queste ultime, mi ricordo di una ormai datata canzone di Lucio Battisti che diceva: “E prendere a pugni un uomo solo perché è stato un po’ scortese. Sapendo che quel che brucia non son le offese. E chiudere gli occhi per fermare. Qualcosa che è dentro me. Ma nella mente tua non c’è. Capire tu non puoi. Tu chiamale se vuoi. Emozioni. Tu chiamale se vuoi. Emozioni” (Emozioni [1970] testo di Mogol). È sicuramente vero che in quanto dotati di libertà, possiamo scegliere di fare questo o il suo contrario, ma rimane il dato di fatto che con questo non si dà o si annulla la differenza: se una è vera l’altra sarà inevitabilmente falsa, se una è buona l’opposta sarà cattiva, se un comportamento è giusto il suo opposto sarà ingiusto. Questo rimane vero, buono e giusto per me, per te che leggi, per le persone che ci sono attorno. Siamo persone libere, ma teniamo presente l’ammonimento paolino: “’Tutto è lecito!’”. Ma non tutto è utile! ‘Tutto è lecito!’. Ma non tutto edifica” (1 Cor 10, 23).

           La finalità di queste riflessioni non è altra che quella di risvegliare le coscienze, recuperando la verità e la bellezza del vero amore tra una donna ed un uomo, che in quanto tale può avere paura di tutto, ma non d’impegnarsi nel coltivare quotidianamente quel ‘noi’, fuori del quale tutto il resto perde significato per gli interessati. Proprio grazie alla differenza donna (femminilità) ed uomo (mascolinità) è possibile il dono vicendevole l’una per l’altro, raggiungendo in questo modo attraverso la reciprocità, una particolare ed unica complementarietà, tanto da rendere possibile l’essere una sola carne (cf Gn 2, 24). I compagni possono condividere un interesse, un bisogno, un’esperienza, si dice anche “compagno di vita”, ma è sempre l’io a parlare, cui si aggiunge un altro che l’accompagna dal di fuori e nonostante le attese rimane in un certo sempre un ‘estraneo’. Realtà che mi sembra emergere chiaramente nel testo di un’altra canzone di questi giorni: “Te ne vai come io fossi niente. Come fosse che? Te ne vai perché non c’è più niente da prendere. Te ne vai come ci fosse un altro. Come se ti stesse già aspettando. Come se esistesse qualcun altro uguale a me. […] Me ne vado come fossi pazzo. Sì, pazzo di te. Me ne vado perché un po’ ne ho voglia. Un po’ perché. Perché per te l’amore dura un anno” (Achille Lauro, 16 marzo, 2020).

L’amore sponsale è invece dare e ricevere la totalità di sé stessi (resa possibile dalla natura), e se è totale, l’amore non ammette riserve o limiti di tempo. Questo si realizza soltanto in un libero consenso attraverso il quale reciprocamente ci si dona e si accoglie l’altro. A tutto ciò, come dice san Tommaso, la natura inclina, ma la donazione di sé stessi è atto del libero arbitrio. In altre parole: ci sono tante forme della relazione umana, ciascuno può fare un po’ quello che vuole (anche se fino ad un certo punto!), ma la relazione sponsale è diversa, perché è totale e non ammette scadenze ed ipoteche, e si connota, in modo unico, per essere il luogo del perdono e della festa. Gli elementi costitutivi di un tale tipo di relazione, quali la totalità e la disponibilità a concedere e ricevere il perdono, mi fanno venire in mente due recenti canzoni che trovo opportuno citare, almeno nei ritornelli, perché mi sembrano esprimere una coscienza che, anche se faticosamente, cerca di emergere sempre di più: “Ma se dovessimo spiegare. In pochissime parole. Il complesso meccanismo. Che governa l’armonia del nostro amore. Basterebbe solamente dire. Senza starci troppo a ragionare. Che sei tu che mi fai stare bene quando io sto male e viceversa. Che sei tu che mi fai stare bene quando io sto male e viceversa” (Francesco Gabbani, Viceversa, 2020). “In mezzo alla tempesta noi siamo ancora qui tenendoci più forte per non perderci vedrai che cambierà, cambierà e se cambierà vale anche perdonare, perdonare non è mai facile rialziamoci da terra, ripartiamo da qui se ancora due destini dicono di sì lo so che cambierà, cambierà e se cambierà tu mi sai perdonare, perdonare” (Nek, Perdonare, 2020). Tutto questo rimane vero a livello naturale, per tutti, ed assume un carattere specifico per il matrimonio cristiano dove, in ogni caso, ciò che deve essere alla base di questo impegno d’amore, è il punto fermo e non negoziabile dell’indissolubilità del matrimonio cristiano, che si fonda sull’amore oblativo dei coniugi promesso per la vita ed aperto alla vita.

           Concludo con quanto ha scritto al riguardo san Giovanni Paolo II, con la speranza che la loro meditazione porti molti a non aver paura d’inoltrarsi in questa magnifica avventura che può cambiare la vita. “… ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un’autentica ‘ecologia umana’. Non solo la terra è stata data da Dio all’uomo, che deve usarla rispettando l’intenzione originaria di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l’uomo è donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato. […] L’uomo riceve da Dio la sua essenziale dignità e con essa la capacità di trascendere ogni ordinamento della società verso la verità ed il bene. Egli, tuttavia, è anche condizionato dalla struttura sociale in cui vive, dall’educazione ricevuta e dall’ambiente. Questi elementi possono facilitare oppure ostacolare il suo vivere secondo verità. Le decisioni, grazie alle quali si costituisce un ambiente umano, possono creare specifiche strutture di peccato, impedendo la piena realizzazione di coloro che da esse sono variamente oppressi. Demolire tali strutture e sostituirle con più autentiche forme di convivenza è un compito che esige coraggio e pazienza. La prima e fondamentale struttura a favore dell’’ecologia umana’ è la famiglia, in seno alla quale l’uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona. Si intende qui la famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco di sé da parte dell’uomo e della donna crea un ambiente di vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le sue potenzialità, diventare consapevole della sua dignità e prepararsi ad affrontare il suo unico ed irripetibile destino. Spesso accade, invece, che l’uomo è scoraggiato dal realizzare le condizioni autentiche della riproduzione umana, ed è indotto a considerare se stesso e la propria vita come un insieme di sensazioni da sperimentare anziché come un’opera da compiere. Di qui nasce una mancanza di libertà che fa rinunciare all’impegno di legarsi stabilmente con un’altra persona e di generare dei figli, oppure induce a considerare costoro come una delle tante ‘cose’ che è possibile avere o non avere, secondo i propri gusti, e che entrano in concorrenza con altre possibilità. Occorre tornare a considerare la famiglia come il santuario della vita. Essa, infatti, è sacra: è il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le esigenze di un’autentica crescita umana. Contro la cosiddetta cultura della morte, la famiglia costituisce la sede della cultura della vita” (Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 1°-V-1991, nn. 38-39).

            Ovviamente più di qualcuno, leggendo questa riflessione, che s’ispira e segue la visione della Chiesa cattolica, starà pensando che i suoi contenuti non sono al passo con i tempi, che oggi i giovani hanno un’altra mentalità ed un’altra visione del modo, della sessualità e dell’amore. Però, prima di tutto, rimane aperta la risposta alla domanda se tutto questo è positivo o meno. In secondo luogo, all’obiezione di una Chiesa che non è al passo con i tempi, si potrebbe rispondere allo stesso modo di Chesterton: la Chiesa non deve essere al passo con i tempi ma, al contrario, essa deve dettare il passo (nella misura in cui rimane fedele al ‘depositum fidei’ che ha ricevuto come amministratrice), deve gettare il seme in un tempo di oscurità e confusione ed attendere pazientemente che tutto questo un giorno fruttifichi (cf G.K.Chesterton, Perché sono cattolico e altri scritti, Milano 2002, p. 10. Il saggio è del 1926. Sarà seguito nel 1929 da Perché sono cattolico II, nel quale affronta la differenza fra protestantesimo e cattolicesimo [Id., pp.49-59]; ma, come è noto, molti degli scritti di Chesterton affrontano il tema della credibilità della fede cristiana).

P. S.: C’è uno stupendo film che, secondo me, descrive in maniera abbastanza veritiera, anche se drammatica, la differenza tra compagna/o, fidanzata/o, moglie/marito, e che consiglio a tutti di vedere. Il suo titolo è One day, un film del 2011 diretto da Lone Scherfig e interpretato da Anne Hathaway e Jim Sturgess, tratto dal romanzo ‘Un giorno’ di David Nicholls, con una colonna sonora (We had Today) a dir poco ‘fantastica’ di Rachel Portman, che tutti dovrebbero ascoltare (https://music.youtube.com/watch?v=ep3LPw5Azio&list=RDAMVMep3LPw5Azio). Lascio qui solo un breve, ma significativo passaggio di un dialogo tra i due innamorati da sempre, ma che solo lottando contro i loro egoismi hanno permesso, alla fine e perdendo così irrimediamilmente tanto tempo, a quell’amore di sbocciare, anche se troppo, troppo tardi … purtroppo. “’Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo’, di solito il consiglio era questo, ma chi aveva l’energia sufficiente per farlo? E se pioveva o eri di cattivo umore? Era poco pratico. Molto meglio cercare di essere coraggiosi e audaci e cambiare le cose in meglio. Non proprio il mondo, ma il pezzettino intorno a te”.

Roma, Angelicum, 3 giugno 2020

SS. CARLO LWANGA E COMPAGNI, MARTIRI

P. Bruno, O. P.


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