Un innamorato che non ha conosciuto le distanze, ma le ha percorse: san Domenico di Guzman (Testo completo)

Un innamorato che non ha conosciuto le distanze, ma le ha percorse: san Domenico di Guzman (5° – conclusione)
6 Maggio 2021
Saint Dominic of Guzman: A lover unaware of long hauls, yet one who trod over them (English full version)
22 Maggio 2021

Un innamorato che non ha conosciuto le distanze, ma le ha percorse: san Domenico di Guzman (Testo completo)

SAN DOMENICO A TAVOLA CON I CONFRATELLI - Tempera su tavola - Maestro Padano (1234 ca.) Chiesa di S. Maria e S. Domenico alla Mascarella, Bologna.

Premessa

Il 6 gennaio del corrente anno è iniziato l’anno giubilare nell’VIII Centenario della nascita al cielo (Dies natalis) di san Domenico di Guzman ed è quindi un’occasione per meglio conoscere questo santo della carità della verità.

          Come ogni santo Domenico è stato un innamorato di Cristo, conosciuto come il più bello tra i figli dell’uomo (cf Sl 44, 3), che gli ha svelato il volto di Dio Padre ed il suo amore che da sempre ci precede e anticipa come ci ricorda l’evangelista Giovanni: “Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4, 19; cf 2 Cor 5, 14-21; si veda anche santa Caterina da Siena, Dialogo: “Tu sei colei che non è …”. Il dono della vita, dell’essere/ci, prima concreta dimostrazione di questo amore e possibilità di amare a nostra volta). La presa di coscienza di questo amore (cf Gal 5, 22), ed esclusivamente questa esperienza profonda ed intima, l’ha portato non solo a percorrere le distanze geografiche (Spagna-Danimarca-Francia-Italia, desiderio di essere missionario in Ungheria tra i Cumani), ma soprattutto a superare le distanze molto più impegnative ed ardue come con chi vive nell’errore e nel degrado morale, con chi non ha la stessa formazione e proviene da una cultura diversa (v. conversione con l’oste a Tolosa e la fondazione del monastero di Prouille nel 1206 con ragazze convertite dall’eresia albigese). Il quotidiano, intimo ed appassionato rapporto di Domenico con Colui che sentiva il tutto della sua vita e per la sua vita e quella del prossimo, gli ha fatto capire, come ha ben sintetizzato affrontando il rapporto tra la verità e la carità Romano Guardini, che in ogni caso: “Non si può staccare la verità dall’amore. Dio non è solo verità, ma è anche amore. Egli abita unicamente nella verità che viene dall’amore[1] ( si veda anche: Ef 4, 15; la vita donata in un campo di concentramento del b. Giuseppe Girotti). In altre parole, Domenico prese coscienza, come scrisse nel 1986 l’allora card. Joseph Ratzinger a proposito del modo di annunciare il Vangelo, che: “La giusta pastorale conduce alla verità, suscita l’amore alla verità ed aiuta a portare anche il dolore della verità. Essa stessa dev’essere un modo di camminare insieme lungo la via difficile e bella verso la nuova vita, che è anche la via verso la vera e grande gioia”[2]. Oggi il mondo ha bisogno di questa verità, di questo amore e di autorità che conoscano e si lascino possedere dalla verità, dalla giustizia, dalla riconciliazione. Perché un’autorità esercitata con un potere senza verità genera come reazione un mondo falso, ingiusto e disumano. Non potrà mai generare accoglienza e condivisione.

“A tavola con san Domenico”

Tema della celebrazione giubilare è “A tavola con san Domenico”, che s’ispira ad un dipinto su tavola (a. 1234 ca.) raffigura il Santo a refettorio con i confratelli, ritrovato nella chiesa di Santa Maria e San Domenico della Mascarella a Bologna. Verosimilmente il suo primo ritratto poco dopo la sua canonizzazione. La scelta non è casuale, in quanto si è voluto giustamente marcare la natura e la struttura fraterna e di comunione volute dal Fondatore per il suo Ordine religioso, con le esigenze che queste comportano, e che si dovevano liberamente accettare per arrivare a condividere la stessa mensa. Infatti, sarebbe un grossolano errore non tenere conto che l’assunzione delle osservanze monastiche volute decisamente da Domenico, descritto “tenero come una madre, duro come un diamante” (P. Madonnet), in quella nuova forma di religione denominata dei ‘Mendicanti’(di cui i Domenicani furono in qualche modo gl’iniziatori), comportavano il silenzio durante i pasti per permettere l’ascolto della Parola di Dio e delle vite dei Santi, l’astinenza dalle carni, tanto che si provvedeva molte volte per gli ammalati con un altro refettorio, senza dimenticare l’esclusione dalla mensa (nella realtà ‘autoesclusione’ di coloro che avevano ferito la fraternità) come penitenza per coloro che non avevano vissuto le osservanze e le regole proprie della vita fraterna[3]. Quindi la condivisione del cibo materiale e spirituale in una pausa tra gli altri impegni comunitari, come la liturgia, la predicazione e gli altri servizi per la comunità e personali, come la meditazione, la preghiera individuale e lo studio. Uno stile di vita che san Tommaso successivamente riassumerà magistralmente nel famoso contemplari et contemplata aliis tradere (Summa theologiae, II-II, q. 188, a. 6: dare agli altri ciò che si è prima di tutto contemplato, ponendo così la vita contemplativa allo stesso tempo punto di partenza e d’arrivo per l’azione apostolica in quanto, afferma sempre il Dottore Angelico, maius est illuminare quam lucere solum, cioè è meglio illuminare che risplendere solamente). Quindi nessuno spazio per un ‘revisionismo smemorato’ o, Dio non voglia, ipocrita che cerca puntualmente di snaturare e stravolgere oggi ciò che nel passato si è avuto cura di coltivare e preservare, al fine di realizzare l’unione con Dio e la comunione con i fratelli, sempre con la sola preoccupazione di realizzare tutto nella perfetta carità (cf Os 6, 6; Col 3, 14).

Domenico: dall’esperienza dell’amore di Dio al servizio della Verità per le persone

L’intento che mi sono proposto nel preparare questa presentazione, è stato semplicemente quello di condividere con voi alcuni avvenimenti e tratti della vita di Domenico, uno di noi, affinché ne possiamo recuperare il significato oggi che viviamo in questo 2021. Quindi, ottocento anni dopo che egli ha lasciato questa terra, e perciò distanti per lo spazio di tempo, lontani per contesto culturale e circostanze, ma incredibilmente prossimi per la stessa confusione, smarrimento, tensioni e soprattutto, a mio sommesso avviso, per la stessa mancanza della vera fede e quindi della speranza, proprie del suo come anche del nostro tempo. Il mio proposito è quindi di partire dalla vita di questo atleta di Dio[4]e tentare di far cogliere sì l’importanza di leggere i segni dei tempi, ma senza limitarsi a prendere atto dell’ineluttabile o delle mode[5], ma per essere segno di contraddizione per il proprio tempo (cf Lc 2, 34), come lo fu Domenico e come siamo chiamati io e tu, che ci crediamo e diciamo discepoli del Risorto[6]. Annunciatori di quel mondo nuovo che il Battista indicò nell’Agnello di Dio (cf Gv 1, 29; 36), che si propone alternativo al mondo vecchio, quello delle belve che vogliono dominare e sfruttare facendo del potere e dell’ingiustizia il proprio programma di vita. Un mondo nuovo, una novità che non va confusa con l’ultima moda o ciò che è semplicemente il recente. Al riguardo mi sembra opportuno riportare quanto recentemente notato da A. D’Avenia che parlando a proposito di Baudelaire, ha scritto con quell’acutezza che lo contraddistingue: “Il paradiso dei bisogni soddisfatti non basta mai a una creatura costitutivamente incompiuta, e così sesso, vino, droghe (di cui Baudelaire tesse un disperato elogio) erano e sono tentativi insufficienti per ritornare nell’Eden perduto, perché godere e possedere, dandoci l’impressione di esistere un po’ di più, ci fanno sentire, solo sul momento, meno inconsistenti e spaesati. […] Il Nuovo, l’opposto della Noia che impedisce la partenza, non è ‘il recente’. Il Nuovo è oltre ciò che ‘il mondo, monotono e piccolo, oggi/ ieri, domani, sempre’ può dare, il Nuovo è l’inesauribile desiderio non ridotto a bisogno, è inquietudine che diventa rischio ed esplorazione. Il poeta, immorale, nevrotico, malinconico, isolato, maledetto, metteva in scena chi saremmo diventati”[7].

Il 6 agosto 1221 Domenico di Guzman, a soli cinquantuno anni, cessava di vedere lo scenario di questo mondo ed i suoi occhi si aprivano alla visione di Colui che l’aveva afferrato e destinato per una missione che mai avrebbe immaginato. La Chiesa, dopo relativamente pochi anni, ne riconobbe l’eroicità delle sue virtù e lo propose come modello e intercessore per noi, ancora pellegrini sulla terra. Di fatto, fu canonizzato da Papa Gregorio IX, che fu legato a lui in vita da una profonda amicizia quando ancora era il card. Ugolino dei Conti di Segni, il 13 luglio 1234 nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Rieti.

Tutta la vita di Domenico, in un certo senso, potrebbe essere riassunta attraverso i tre verbi greci che esprimono modalità e livelli di profondità diversi del vedere (diversità di significato che non si dà in italiano), dimostrando così di non essere un ‘visionario’, ma un uomo che coglieva la realtà in quanto vedeva con gli occhi della ragione e della fede allo stesso tempo, sempre però consapevole che solo con la fede avrebbe visto ciò che con gli occhi materiali non avrebbe mai potuto vedere. Durante il suo pellegrinaggio terreno, egli ha verificato (βλέπω= blépō ) la situazione di profonda crisi in cui versavano le donne e gli uomini dei suoi tempi e della stessa Chiesa; ha intravisto (θεωρέω=theoreo) riflettendo e pregando, le cause di detta crisi nella confusione che dilagava a tutti i livelli arrivando a confondere il vero con il falso, il bene con i suoi surrogati, il piacere e il benessere; ma solo nella fede e con fede ha visto (ὁράω=orao) facendo l’esperienza del Cristo risorto come i discepoli e l’apostolo Tommaso (cf Gv 20, 19; 29) che hanno visto con lo sguardo della fede, il solo che può vedere ciò che è reale, ma che gli occhi materiali o della sola ragione non possono verificare.

Domenico avendo fatto nella sua vita l’esperienza del Risorto, non ha avuto paura di raccogliere le sfide che il suo tempo gli lanciava, non si è arroccato e barricato di fronte al mondo ed ai suoi errori o alle ingannevoli auto-convinzioni, ma è stato testimone umile, fedele e quindi credibile della Verità, non come una vuota e arida teoria, ma quella somma Verità che è Dio, quel tutto in riferimento al quale è possibile intravvedere le ragioni di tutto il resto (si pensi all’immagine del vasaio e del vaso o simili nella Bibbia: cf Sap 15, 7; Sir 27, 5; 33, 13; 38, 29; Is 29, 16; 45, 9; Ger 18, 6; Rm 1; 9, 21). Un Dio che in Cristo ha assunto la nostra natura umana, ha patito facendosi crocifiggere per amore le sue mani e i suoi piedi, trafiggere il costato, dal quale usciranno sangue ed acqua, simboli della vita e della vita nuova, frutto del suo amore gratuito, ma alla fine un Cristo risorto, vivente e sempre presente. Domenico ha vissuto con questa fede e: “Quando uno è convinto che Dio esiste ed è Padre e approdo di tutti gli esseri, e che Gesù Cristo è risorto [ed ora è il vivente alla destra di Dio Padre], primizia della nostra vittoria, non può non essere allegro nel profondo del suo essere, per quanto male gli vadano le cose e per quanto deludente gli possa sembrare la cristianità” (G. Biffi).

          Alla luce di quanto fin qui ricordato, è allora importante chiedersi che cosa significa per noi quest’anno celebrare l’VIII centenario della nascita al cielo di un uomo che ha vissuto in modo pieno e intenso la sua relativamente breve esistenza. Domenico ha dedicato tutta la sua vita ‘cercando Colui che lo cercava’, lasciandosi afferrare e condurre da questo desiderio che è arrivato a trasformarsi sempre più in un vero e proprio bisogno. Questa ricerca sincera ed onesta per Domenico si è svolta nel diuturno approfondimento della Parola di Dio, in modo particolare del vangelo di Matteo e delle Lettere di Paolo dove ha trovato il Regno dei cieli, dove ha fatto esperienza del Cristo Risorto, la sola esperienza che rende veramente liberi e privi di paure (chi ci separerà dall’ amore di Cristo?: cf Rm 8, 32-35). Quindi, un giubileo per ricordare l’esperienza di Domenico (uno di noi anche se noi non siamo come lui), con il Dio comunione, Uno e Trino, nella consapevolezza, come ci ricorda una filosofa ebrea Hannah Arendt (capovolgendo il pensiero del suo maestro Heidegger, secondo il quale l’uomo nasce per essere gettato nella morte), che: “… gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per rincominciare”[8]. Allora celebrando un tale evento, noi vogliamo celebrare una nuova nascita e non una morte senza speranza che scrive la parola fine, che pone il nulla come méta ultima.

Per queste ragioni vorrei appunto ricordare alcuni momenti significativi di questa vita donata completamente a Dio ed alle sorelle e fratelli che ha incontrato nel suo cammino terreno. Eloquente è la descrizione che il P. Vicaire fa degli ultimi momenti di vita su questa terra di quest’uomo di fede, purtroppo non abbastanza conosciuto: “Domenico sta morendo. Al mattino del 6 agosto chiede ai frati che lo vegliano di chiamare fra Ventura. […] Dietro ad essi, come da uno scenario singolarmente significativo, nelle dodici nicchie che si aprano tra i pilastri delle colonne, le figure stilizzate degli Apostoli sembrano piegarsi per raccogliere le ultime parole di chi ha saputo farsi portavoce fedele del loro messaggio. Per quanti si accostano ad ascoltarlo, da quel pavimento col quale quasi si confonde, Domenico pronuncia un lungo monologo così commovente che fra Ventura non ricorderà di essere altra volta rimasto tanto edificato; solo qualcuna ci è stata tramandata. Domenico parla della santità dei suoi frati, della perseveranza di cui dovranno dar prova, della prudenza che dovranno avere nei contatti con le persone, in particolare con le donne giovani, perché soltanto un cuore molto puro evita passi sbagliati. […] Domenico parla soprattutto dello slancio col quale si deve amare l’Ordine e propagarlo. Amare le anime. La povertà che però fa ricchi molti (cf 2 Cor 6, 10) [“Abbiate la carità, conservate l’umiltà, praticate la povertà volontaria”]”[9].

Con quest’ultima scena cala il sipario sulla vita terrena di Domenico, ma si apre quello sugli effetti della sua esistenza per la Chiesa e per tanti credenti fino ad oggi. Per questo è importante e utile tentare di leggere il messaggio di vita che la Provvidenza ha inteso esprimervi, perché noi ce ne possiamo spiritualmente nutrire. Di fatto, ogni santo, oltre a essere un capolavoro della grazia, che ci muove a lodare Dio, capace di suscitare dalla nostra terra polverosa questi esempi di splendida umanità; oltre a presentarci un concreto modello offerto alla nostra volontà d’imitazione; oltre a essere un amico del Signore che può soccorrerci nelle difficoltà; oltre a tutto questo, ogni santo è per così dire una ‘messaggio’ che il Dio vivo ed eterno fa risonare nel tempo per aiutarci a capire un poco di più il disegno d’amore che è stato pensato e voluto per ciascuno di noi. Si tratta nient’altro di quella ‘matita di Dio’, di cui parlava santa Teresa di Calcutta, che ha scritto tanto e significativamente nel libro della vita con quella miscela d’inchiostro che risulta dalla fede, dalla speranza e dalla carità. L’esistenza di ogni santo in qualche modo è una piccola rivelazione che ci aiuta a comprendere quella Rivelazione (compiuta per sempre con la morte dell’ultimo Apostolo), di ciò che il Padre celeste vuole per i suoi figli. Ogni santo nella sua avventura terrestre è dunque portatore di alcune fondamentali verità: ricordarlo e venerarlo significa prima di tutto cercare di capirlo in questo suo speciale valore, raccogliendo questo messaggio[10]. Infatti, la santità non consiste in atti avventurosi di virtù, ma nell’amare insieme con Cristo. Perciò i veri santi sono uomini e donne in cui l’umano, mediante la trasformazione e purificazione pasquale, viene in luce in tutta la sua originaria bellezza[11].

Questo vale in modo particolare per san Domenico in cui più la vita che gli scritti (eccetto due ti di carattere amministrativo, certa è soltanto una lettera alla Priora delle monache di Madrid[12]), che conosciamo dalle testimonianze di coloro che l’hanno incontrato e vissuto con lui, lascia delle lezioni da imparare soprattutto per coloro che partecipano a diversi livelli allo stesso carisma (frati, monache, suore, laiche e laici delle fraternite), che lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa affinché il loro impegno sia prima di tutto quello di lasciarsi lavorare dallo Spirito, mettendo in pratica la Parola, per operare nella giustizia, che è impegno di amore fraterno e donazione della propria vita a chi ha bisogno del nostro aiuto e non solo a chi lo merita. Domenico, quindi, non ci ha lasciato opere scritte, ma con l’inchiostro indelebile della testimonianza della sua vita ci ha lasciato qualcosa di molto più eloquente ed edificante. Realizzazione di quel verbo αγαπάν (agapàn = amare) proprio del Nuovo Testamento (quasi sconosciuto nella grecità classica dove nei testi che ci rimangono lo incontriamo solo dodici volte a fronte delle cento quarantatré, ovviamente diversamente coniugato, del N. T.), che significa l’amore proprio di Dio: incondizionato, che va a chi ne ha appunto bisogno, a prescindere se sia bello o brutto, buono o cattivo, un amore che gode semplicemente nel vedere la realizzazione della vera felicità dell’altro (cf Mt 5, 45). Il segreto di Domenico per realizzare tutto questo è stata la costante ricerca dell’intimità con il Signore, attraverso una preghiera incessante, con il perseverante desiderio di stare con Lui[13]riuscendo così ad amare veramente il prossimo. Cosciente che il vero amore si realizza solo nella verità (cf Mc 3, 14-15; Gv 1, 39; Ef 4, 15), e richiede anche sacrificio. Infatti, quando si ama, inevitabilmente si soffre e quando non si è disposti a soffrire è perché si è rinunziato ad amare (cf H. Hesse). Domenico, con questo spirito ha corretto il suo prossimo e la correzione fraterna animata da questo spirito rimane valida anche oggi per coloro che ne condividono il carisma, ma anche per ogni membro della comunità cristiana dove sempre più sembra prendere piede un’idea di carità che prescinde dalla verità[14]. Propongo, allora, di seguito alcune di queste note distintive della sua vita e della sua vocazione.

1) Domenico ha vissuto nella libertà di figlio di Dio l’obbedienza della fede

Annoverato tra i canonici del Capitolo Cattedrale di Osma, certamente non aveva alcun progetto di lasciare la propria realtà geografica ed ecclesiale: chi accetta di diventare canonico, di solito non pensa di fare il missionario o l’itinerante. Dio, però, lo guiderà per le strade che egli non immaginava neppure, fino a farlo approdare a Bologna, dove concluderà la sua intensa e fruttuosa giornata terrena, attorniato da confratelli che sicuramente mai aveva immaginato di avere. È proprio vero, come ha scritto W. Shakespeare che: “… ciò dovrebbe insegnarci che una divinità c’è che dà forma ai nostri fini, comunque noi li vogliamo abbozzare”[15]. Anche se ce ne dimentichiamo Dio è il Signore non solo della storia universale, ma anche di quella personale. Egli ci guida, ma sempre lasciandoci liberi, là dove fino a poco tempo prima non avevamo neanche immaginato quanto a mete e tempi, ma sorprendendoci sempre alla fine, come Abramo, come Giuseppe e Maria, come i Magi, come la Maddalena e l’apostolo Tommaso detto Didimo.

Domenico non ha ricercato mai di essere un originale, un ‘protagonista’ ossessionato di vendere la propria immagine, ed ha sempre colto le possibilità che la vita gli offriva come delle occasioni che Dio gli offriva per realizzare il suo progetto d’amore che aveva pensato per lui e per la Chiesa. La prova l’abbiamo in quanto non ha avuto nessun problema ad accettare la decisione del Concilio Lateranense IV (1215) e ribadita da Innocenzo III, di scegliere una Regola per il suo futuro Ordine tra quelle esistenti, cosa che fece adottando la Regola di sant’Agostino. Ugualmente, mostrando così di essere un vero e proprio leader, non ha avuto nessun problema a fidarsi dei confratelli e tra questi di quelli più preparati. Di fatto lasciò alla decisione del Capitolo Generale di Bologna del 1220 (17 o 20 maggio) l’approvazione delle Consuetudini che si erano adottate e vissute dall’approvazione dell’Ordine avvenuta nel 1216. Inoltre, nonostante che dagli Atti del processo di canonizzazione siamo informati che molte delle leggi erano state direttamente volute dal Fondatore[16], sono quasi sicuro, sulla base delle testimonianze storiche e di logiche conclusioni, che in quest’opera Domenico si sia servito della competenza di esperti canonisti che erano entrati nell’Ordine, primo tra tutti il b. Reginaldo d’Orleans, anche se questi morì il 12 febbraio 1220, quindi poco prima della celebrazione del Capitolo Generale[17].

Questa è una lezione preziosa per tutti le figlie e i figli di san Domenico, ma alla fine per tutti le donne e gli uomini di ogni tempo: obbedire, nella libertà dei figli, alla volontà di Dio vivendo ciascuno la propria specifica vocazione. Obbedienza come ascolto (lat. oboedire, der. di audire ‘ascoltare’, col pref. ob-) di chi vuole, addirittura più di noi stessi, il nostro vero bene e la nostra vera felicità, non quella di qualche piacere fuggente ed ingannevole, ma quella che dimora stabilmente nel profondo del nostro cuore. Questo insegnamento vale per ognuno che è tentato di rifarsi esclusivamente ai propri calcoli e piani strategici, programmazione e piani quinquennali o progetti di resilienza, dimenticandosi che esiste lo Spirito Santo che ci guida una volta che abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare e l’abbiamo fatto con amore. Quindi, l’importanza della fede che è certa dell’intervento di Dio, come quella di Abramo: “Dio stesso provvederà …” (cf Gn 22, 8).

2) Il Vescovo, successore degli Apostoli all’origine della missione di Domenico

È proprio la piena e convinta comunione di questo figlio della Chiesa col suo Vescovo, a portarlo a fondare uno degli Ordini religiosi più importanti e significativi per la Chiesa cattolica. Però, forse, non è stato sottolineato a sufficienza che non fu Domenico a prendere l’iniziativa di lasciare la sua Cattedrale, dove svolgeva il suo ministero ricoprendo l’ufficio di canonico e sotto priore del Capitolo, ma egli, semplicemente, seguì il suo Vescovo[18] che decise di associarlo a sé nella missione in Danimarca (a. 1202/3). Quando Domenico arriva a Tolosa e con l’oste[19] sperimenta, al di là degli argomenti discussi, la necessità di una predicazione che sia soprattutto fatta con la testimonianza e fondata nella vita contemplativa, forse solo in quel momento inizia a intuire, a capire qualcosa. Coniugando gli avvenimenti con la fede, continuando così di fatto l’economia dell’incarnazione, Domenico fonderà di fatto, prima le monache e poi non degli specialisti della comunicazione, degli oratori, dei professori, ma l’Ordine dei frati ‘predicatori’: persone che non si sono scelte, vengono da culture diverse e umanamente non hanno molto in comune, ma sono stati chiamati (quando c’è una reale e vera vocazione) e si sentono coinvolti da protagonisti in un progetto che l’impegna a vivere il quotidiano, oltre che con le virtù cardinali, in modo particolare a far maturare sempre più le virtù teologali nella propria vita.

Domenico, gettatosi con entusiasmo nell’attuazione di questo progetto tutto apostolico/episcopale, si ritrova al centro di una grande impresa, che verrà da lui continuamente modellata e sviluppata, tanto che tutti la riconosceranno come frutto della sua docilità all’azione dello Spirito Santo, conformazione continuata anche dopo la sua morte, quando, per esempio, l’Ordine obbedì al Papa Sisto IV che imponeva ai frati di accettare le donazioni a livello comunitario e quindi dispensava la comunità dal divieto di avere delle proprietà (cf Bolla Nuper, 1°-VII-1475).

Quindi, proprio dalla comunione con il suo vescovo è stato stimolato a scoprire il carisma (coniugando così concretamente istituzione e carisma, Chiesa dello Spirito e Chiesa del diritto) che il medesimo Spirito, che guidava il vescovo, gli stava donando, con la sua identità, tipicità, genialità spirituale e la sua straordinaria missione, sempre nella e per tutta la Chiesa, che è possibile verificare nella realtà di più di ottocento anni di vita, soprattutto nella schiera di sante e di santi che ha prodotto e delle innumerevoli opere di tanti suoi figli in questi secoli.

3) La presenza della Madre di Dio nella vita di Domenico

          Non è possibile parlare di Domenico, e per lo più all’inizio del mese di maggio e in questa Basilica Santuario di Santa Maria del Sasso, testimone di due miracolosi eventi (1347 e 1512) che hanno visto protagonista la Madre di Dio, senza ricordare la presenza di Maria nella sua vita. Lo stretto legame che unisce Domenico a Maria è parte essenziale della sua stessa vocazione e della sua stessa missione. Per questo è stata convinzione comune dei primi frati dell’Ordine che Maria abbia avuto una parte molto importante nella stessa fondazione dell’Ordine (cf Vitae Fratrum). Il b. Umberto de Romans scrive che san Domenico era solito, nelle sue preghiere, raccomandare l’Ordine alla beata Vergine “come a speciale patrona” (De Vita Regolari). La medesima cosa afferma Costantino di Orvieto, uno dei primi biografi di san Domenico, e cioè che egli: “… aveva affidato tutta la cura dell’Ordine a Maria come a speciale patrona” (Legenda, n. 31).

Nella lotta contro l’eresia, uno degli argomenti principali della sua predicazione è certamente la divina maternità di Maria. Gli albigesi, in mezzo ai quali inizia la sua attività di missionario, negano l’Incarnazione del Verbo, di conseguenza non riconoscono Maria Madre di Dio. Lo spirito mariano di Domenico poi si manifesta in tanti episodi della sua vita. Nei viaggi, che faceva a piedi, era solito cantare l’Ave Maris Stella e la Salve Regina. Però questa particolare presenza e stretto legame della Madre di Dio con il frate predicatore, è testimoniata soprattutto dalla scelta di Domenico di creare una nuova formula di professione religiosa, con la quale si promette espressamente obbedienza a Maria. Ciò che “non avviene negli altri Ordini”, sottolinea Umberto de Romans (De Vita Regulari). Anche santa Caterina da Siena attribuisce a Maria un compito essenziale nella vocazione e nella missione del fondatore dei frati predicatori. Domenico – dice il Signore alla santa: “… prese l’ufficio del Verbo unigenito mio figliolo. Nel mondo pareva un apostolo, con tanta verità e lume seminava la parola mia, levando le tenebre e donando la luce. Egli fu un lume, che io porsi al mondo per mezzo di Maria” (Il Dialogo; cf anche Gv 12, 46). Infine, non dimentichiamo che la decisione (forse Pentecoste: 14 maggio)[20] di Domenico d’inviare i frati a predicare e fondare nuove comunità (dispersione dei primi compagni, in tutto una quindicina, in realtà erano ancora dei canonici nella casa di Tolosa[21]), si realizzò nel giorno dell’Assunta del 1217[22].

4) L’origine della sua santità: l’esperienza del Cristo Risorto che “… ci ha amato per primo” (1 Gv 4, 19)

          Contrariamente, come già accennato, alla paura dei primi discepoli la sera di Pasqua (cf Gv 20, 19) motivata dal fatto che non avevano ancora fatto l’esperienza del Risorto, Domenico ha visto con lo sguardo della fede, il solo che permette di vedere ciò che pur essendo reale, non può essere visto dagli occhi materiali e verificato con la sola ragione. Questa esperienza viva ha motivato la sua convinta e profonda compassione (il patire con) per le persone che ha incontrato, specialmente ‘sui sentieri e nei crocicchi’ della vita. Già nel gesto di vendere tutti i suoi beni e soprattutto le preziose pergamene (non essendoci ancora i libri a stampa …, cosa che solo un intellettuale può comprendere), in favore dei poveri, vittime della carestia a Palencia (a. 1191 ca.), ci si rivela la generosità del cuore che batteva in Domenico: un cuore compassionevole, sensibile e quindi disponibile. A chi gli chiede stupito le ragioni di un simile gesto, Domenico risponde con spontaneità: “Come posso studiare su pelli morte mentre tanti miei fratelli muoiono di fame?”. Con la ragione e la fede prese la decisione giusta agendo in modo eccezionale di fronte a una emergenza, rispondendo in modo straordinario ad una situazione straordinaria, nella consapevolezza che in quel momento era chiamato a essere strumento della tenerezza di Dio, in modo concreto senza nessun comodo ed opportunistico rinvio o delega, seppure a Dio stesso (cf Mt 14, 16). Una concreta lezione per ciascuno di noi: non rimanere chiusi, ma rimanere aperti sempre a Dio e ai bisogni del prossimo hic et nunc! (cf Lc 10, 33).

Però, il resto della sua vita ci dice che la forma tipica, ‘ordinaria’ della sua attenzione alle sorelle ed ai fratelli del suo tempo sarà la carità della verità. Egli era cosciente che gli uomini, anche se non sempre se ne rendono conto, hanno bisogno della verità come dell’aria e del cibo, della verità che salva, della Verità che è Cristo (cf Mt 4, 4). Perché la verità non è un lusso, non è l’hobby superfluo di gente sfaccendata, non è un ‘sopramobile’ di abbellimento, non è la mania culturale del Medio Evo, ormai fuori moda. La verità è ciò che consente all’uomo di realizzarsi come uomo, di non tradire la sua dignità e quella del prossimo, di raggiungere il proprio destino e sfuggire all’amarezza frustrante dell’insignificanza ed alla depressione della mancanza di senso. La carità della verità e la verità della carità (cf Ef 4, 15), è il messaggio di Domenico, il più alto ed il più attuale di tutti in quanto destinato a nutrire ciò che non perisce. Quelle verità e onestà che sono oggi, forse come non mai, spesso latitanti, iniziando proprio dalle nostre famiglie, dalle nostre comunità religiose ed ecclesiali. La carità della verità che non risente delle paure per le novità ovvero della cultura dominante o del pensiero della maggioranza e quindi non si arrocca, non s’impone, ma si propone sempre e comunque, costi quel che costi, prima di tutto con chi ci è più prossimo (cf Mt 19, 21; At 5, 29).

Purtroppo non tanti cristiani, religiosi, sacerdoti e vescovi anche ai nostri tempi (come ai tempi di Domenico, come in tutti i tempi: cf Ec 1, 9), possiedono questa convinzione e così finiscono spesso e volentieri di essere ostaggi di un agitato pragmatismo, di una sterile filantropia, di un ideologizzato ecologismo (ben diverso dalla doverosa preservazione, rispetto e condivisione dei beni del creato: cf Gn 2, 8; 15), di un volubile sentimentalismo, insomma di un ‘volemoci bene’ di facciata, spesso e volentieri incosciente, oggetto di scambio, dopo magari una contrattazione al ribasso e comunque a buon mercato, che si trasforma, però, in micidiale conflitto se l’altro non fa quello che dico io: una vera e propria schizofrenia, un controsenso e follia ormai sempre più diffuse in questo nostro mondo, dove si può manifestare per la preservazione di una razza animale (cosa in sé lodevole), e per includere addirittura i diritti degli animali nella Carta Costituzionale, ma guai a dire una parola in favore del rispetto e per il diritto alla vita di un bambino/a concepito/a![23].

Dove si dà una cultura che si gloria di modernità e si riempie la bocca di libertà, di pluralismo, di ‘tolleranza’[24], salvo però dire che un comportamento è in sé cattivo, sbagliato o è un peccato (cf Is 60, 11; 52, 1; Ap 21, 8; 26-27), dove si può insultare e dichiararsi vittime di censura da un palco[25], ma di fatto si vieta di esprimere il proprio pensiero ad altri; quindi, alla fine un vero e proprio ‘pluralismo a senso unico’, cioè nella misura in cui ci si adegua alla cultura dominante, nella misura in cui l’altro è d’accordo con me! Uno strano mondo dove sempre più la falsità, la menzogna sono le regole della e per la convivenza, dove si tenta di far credere che è impossibile arrivare alla certezza della verità[26], che non esiste certezza riguardo a nulla, tanto meno riguardo a cos’è bene e cos’è male (e che quindi non c’è diversità di trattamento nel giudizio, menzogna contraddetta dalla Parola di Dio: cf per es. Ap 22, 14-15; 17-19), e questo a prescindere dalle fragilità e possibilità della singola ogni persona che richiedono sempre comprensione (cf Mt 7, 12). Tutto, allora, diventa soggettivismo puro, relativo al ‘mi piace/conviene questo o così! Non posso sacrificare la mia libertà e felicità, ecc.’[27] Confusione che produce divisioni, e sappiamo tutti chi è il padre della divisione[28].

Comportamenti antitetici e contraddittori che in molti casi manifestano pura schizofrenia. Pensiamo per esempio a quanto stiamo vivendo per il Covid-19, dove ogni scienziato dice la sua, molte volte esattamente il contrario dell’altro, per non parlare dei politici. Pensiamo al così detto ‘diritto’ all’aborto ed al fatto che le stesse persone s’impegnano, allo stesso tempo, per la messa al bando della pena di morte; alla moda di convivere, al diritto a divorziare e dall’altra la pretesa, da parte degli stessi, che vengano riconosciute ed equiparate le unioni tra persone dello stesso sesso, o addirittura tra membri di una stessa famiglia, a vero e proprio ‘matrimonio’. Pensiamo a chi se la prende con lo Stato perché non fornisce adeguatamente i servizi essenziali, ma d’altra parte evade sistematicamente le tasse ovvero ottiene dei benefici anche se non ne ha bisogno; a chi contesta e rifiuta ogni morale e le norme giuridiche secondo giustizia, ma finisce poi con l’imporre il suo opportunistico arbitrio.

Il giubileo: un’occasione da non sprecare per le figlie e i figli di san Domenico

Le figlie e i figli di san Domenico onoreranno colui grazie al quale vivono tale carisma in questo anno giubilare, nella misura con cui annunceranno in modo chiaro (quella parresia a cui spesso si richiama papa Francesco!), umile, appassionato, la forza liberatrice della verità (cf Gv 8, 32), prima di tutto nella vita fraterna all’interno della propria comunità religiosa, nella propria famiglia se laici, e tutti la testimonieranno nella comunità ecclesiale in cui la Provvidenza li ha posti[29]. Coscienti che la vera conversione (cf At 3, 19), per una vera rinascita e la salvezza, parte proprio dall’accogliere la luce (cf Gv 3, 19-21), quella della verità che è Cristo con il suo Vangelo. Questo significa per i frati essere predicatori di Gesù Cristo, non solo di nozioni o teorie, cioè di essere annunciatori integri e convincenti della verità, che s’impegnano a vivere prima di tutto nella propria comunità. Solo così potranno risvegliare la speranza nel presente di questa nostra umanità (hic et nunc), sempre di più confusa e disorientata, se non addirittura persa, in questa pandemia, attuando palliativi e rivolgendosi a surrogati che ingannano e rendono ancora di più schiavi e disperati, incerti e sospesi (di fatto paralizzati: “Più fallace di ogni altra cosa è il cuore e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per rendere a ciascuno secondo la sua condizione” [Ger 17, 9-10]), tra i ricordi del passato che non torna e i sogni sul futuro di cui non si ha certezza.

Questo significa per le monache testimoniare di essere, sempre e comunque, davanti a Dio per il mondo (cf J.-M. R. Tillard, O. P.), nonostante la separazione fisica che non può non avere come ragione prima e ultima che la carità. In quella clausura del monastero che non è arido deserto, che non è assenza degli uomini, ma presenza di Dio (cf C. Carretto), che non è egoistica fuga dai problemi, ma intuizione di chi darà, in ogni caso, loro un senso, anche quando non si risolveranno secondo le nostre aspettative (cf Lc 10, 42). Per le suore e i laici domenicani significa essere testimoni della carità della verità nelle proprie comunità, attraverso le varie opere di apostolato soprattutto in campo educativo e verso i malati ed i poveri, nelle famiglie e nei vari luoghi di lavoro e d’incontro. Per tutti, sempre, significa di non aver paura di niente e di nessuno in quanto si ha la consapevolezza di non essere soli (cf Mt 28, 10; Rm 8, 31), dove le varie comunità, aggregazioni e relazioni diventano occasioni e luoghi del perdono e della festa (cf J. Vanier) nella misura in cui si tende a vivere nello spirito delle virtù teologali.

Infatti, dalla storia della Chiesa impariamo la lezione che sempre la paura è stata una cattiva consigliera. L’ha portata o ad arroccarsi, chiudendosi di fronte alle sfide che i nuovi tempi portavano (pensiamo, per esempio, alle scoperte scientifiche, alla democrazia, alla libertà di coscienza), reagendo, quando poteva, imponendosi con la forza o ghettizzando chi non la pensava allo stesso modo; oppure la paura l’ha portata a rinunciare ad annunciare la verità liberante, anche se esigente del vangelo (cf Gv 6, 60-63), dimenticando che la sua missione non è quella di proclamare ciò che il mondo vuole sentirsi dire o si aspetta sia confermato dalla Chiesa (cf Ger 29, 8-14; in particolare: Mt 5, 10-12, Lc 6, 26; Gv 15, 18-20; 1 Cor 15, 1-11; 1 Gv 2, 15-17)[30], ma solo di annunciare fedelmente (da amministratrice e non da padrona: cf 1 Cor 4, 1-2) la volontà di Dio, ciò che solamente rispetta la dignità della persona, delle persone e dell’intero creato. Annunziare il Vangelo a un mondo sempre più convinto che è bene ciò che piace e che quindi non digerisce la difesa della vita, che rifiuta la dignità del matrimonio fra un uomo e una donna che si donano e si accolgono nell’apertura alla vita, vero fondamento della famiglia. Ad una cultura che ridicolizza l’onestà e la giustizia nei rapporti intersoggettivi, riconoscendo nel ‘furbo’ che imbroglia e froda il modello da proporre ai giovani come colui che ha capito ‘cos’è la vita, come vanno le cose e come si sopravvive in questo mondo di lupi’. Allora, quanti condividono oggi il carisma e la missione di Domenico, sono coscienti di essere chiamati ad essere come lui semplici e gioiosi annunciatori di ciò che hanno ricevuto da Dio (cf 1 Cor 11, 23), e da fedeli amministratori (1 Cor 4, 1-2), far comprendere agli uomini di oggi che una tale proposta non condanna nessuno, ma sicuramente mette di fronte ad una scelta di pienezza di vita (cf Sl 24, 4-5), approdo che si può raggiungere solo con una sincera conversione, come ci ricorda l’episodio del cosiddetto ‘buon ladrone’: “E aggiunse: ‘Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno’. Gli rispose: ‘In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23, 42-43).

Conclusione

San Domenico ha dato vita ad una grande famiglia composta dai frati, dalle monache, dalle suore e dai laici, che come ogni famiglia ha avuto figure e momenti per cui elevare un sincero grazie a Dio (per es.: san Tommaso d’Aquino, santa Caterina da Siena, la scuola di Salamanca con la difesa dei diritti degli Indios, il beato Giuseppe Girotti, morto da testimone della fede a Dachau il 1°-IV-1945, Giorgio La Pira e il suo impegno per la pace e i poveri, e tanti altri che è impossibile elencare), insieme a persone e avvenimenti per cui chiedere perdono in quanto si è tradita la propria vocazione e la volontà di Dio (come per es.: l’asservimento al potere durante l’inquisizione spagnola; l’usare l’autorità religiosa per esercitare un potere arbitrario a sfregio della giustizia ovvero quando si è rinunciato ad annunciare il Vangelo per paura dell’impopolarità). La celebrazione di questo giubileo deve quindi essere un’opportunità, per ogni componente di questa grande famiglia, per fare un sincero esame di coscienza e verificare onestamente, in spirito di conversione, a che punto ci si trova (hic et nunc!), nel vivere l’eredità che abbiamo ricevuto come dono e provvista in questo nostro pellegrinaggio terreno (segno e pegno allo stesso tempo). La speranza, che deve tradursi in preghiera, è che a nessun componente di questa grande famiglia accada di ritrovarsi a far sua la triste costatazione che H. Hesse mette in bocca al monaco Narciso nel dialogo con l’amico Boccadoro: “Ho vissuto una vita monastica animata più delle volte dalla ricerca della perfezione che soddisfaceva le mie aspettative, o quelle degli altri, piuttosto che umile accoglienza della perfezione della carità che il Signore ci chiede. Quindi, inesorabilmente, ho vissuto una vita …, ma povera d’amore!”.

Allora l’augurio migliore, per ogni figlia e figlio del Santo Padre Domenicano in questo anno giubilare e non dimenticando la sua promessa “Vi sarò di aiuto più dal cielo che dalla terra” (O Spem Miram, Responsorio della Festa risalente al 1236), può essere formulato nel modo più vero con le parole di coloro che lo conobbero personalmente e furono conquistati dalla sua fede e dalla sua coerenza di vita come il b. Reginaldo d’Orleans e il b. Giordano di Sassonia. Al primo, che era stato un famoso docente di diritto, un giorno venne chiesto: “Per caso non provate qualche rimpianto, Maestro, per aver preso quest’abito? E lui abbassando la testa, rispose: ‘Io credo di non essermi fatto alcun merito vivendo in quest’Ordine, perché vi ho sempre trovato troppa gioia’”. Il secondo, che fu successore di Domenico nella guida dell’Ordine, in questi termini sintetizzò il carisma domenicano: “Vivere onestamente, imparare ed insegnare”.     

Non penso possa esserci augurio migliore per celebrare questa felice ricorrenza per tutti, in quanto Domenico, come tutti coloro che hanno vissuto il Vangelo, è un segno della tenerezza di Dio per ogni donna e per ogni uomo. Per questo, soprattutto in questo anno, raccogliendo l’invito fatto ad ogni vivente di lodare e ringraziare Dio, contenuto nel Salmo 150, sentiamo il dovere ed allo stesso tempo la commozione di farlo per il dono di san Domenico. Un battezzato dove non c’è stato “Nessuno sfoggio di pietà bizzarra, [ma] semplice umanità”[31], e questo grazie ad una fede piena di speranza e traboccante di carità, sbocciata e fiorita dalla semplice presa di coscienza che Dio ci ha amati per primo e per questo è data a noi la possibilità di amare realmente nella verità: Dio, noi stessi, il nostro prossimo e rispettare tutto quanto è stato creato da Dio per amore (cf 1 Gv 4, 19). Domenico con la sua vita di fede, ricorda a coloro che oggi partecipano al suo carisma, di vivere onestamente l’impegno a cui richiama lo stesso evangelista Giovanni: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Gv, 3, 18).

O lumen Ecclesiae

Luce della Chiesa, Dottore di verità, Rosa di pazienza, Avorio di castità,
gratuitamente hai effuso l’acqua della sapienza:
predicatore della grazia, ricongiungi anche noi tra i beati del cielo.

Prega per noi, Santo padre Domenico.
E saremo degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo
Ti supplichiamo Dio onnipotente, per intercessione di San Domenico nostro Padre, di sollevarci dal peso dei nostri peccati.
Per Cristo nostro Signore.

Basilica Santuario di Santa Maria del Sasso

Bibbiena (AR), 10 maggio 2021 (ultima modifica)

P. Bruno, O. P.


[1] R. Guardini, Lettere sull’autoformazione, Brescia 1958, p. 23. Nostro è il corsivo.

[2] J. Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di Fede, Speranza e Carità, Milano 2020, p. 77.

[3] Domenico: “Personalmente osservava rigidamente e perfettamente la Regola ed esortava e comandava ai frati perché anch’essi l’osservassero integralmente e puniva severamente i trasgressori” (Fra Paolo Veneto, in Atti del processo di canonizzazione, 43, citato in: P. Lippini, La spiritualità domenicana, Bologna 1987, p. 51, nota 75).

[4] Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso XII, 54: “… l’amoroso drudo de la fede cristiana, il santo atleta benigno a’ suoi e a’ nemici crudo; …”.

[5] “Bernanos ha rappresentato questo punto con mordente ironia nella figura del vescovo Espelette nella seconda parte de L’inganno. Bernanos parla del fatto che la viltà intellettuale di questo sacerdote è senza limiti (p. 387); ‘appartengo al mio tempo’, egli ripete … ‘Ma non ha mai dato attenzione al fatto che in tal modo rinnegava il segno eterno da cui era segnato” (in J. Ratzinger, Guardare Cristo…, p. 70, nota 9).

Si veda anche la dedica di Enzo Jannacci alla canzone Il giudizio di Dio: “A chi assiste a eventi epocali, ma non se ne accorge!, forse non sanno cogliere il tempo opportuno che esige anche di cambiare … Risulta spontaneo il pensare all’attuale situazione creata dalla pandemia e all’illusione di ‘ritorno alla vita di prima …, alla normalità”.

“Nos sumus tempora: quale sumus, talia sunt tempora”. Cioè: “’Sono tempi cattivi, tempi penosi!’” si dice. Ma cerchiamo di vivere bene e i tempi saranno buoni. I tempi siamo noi; come siamo noi così sono i tempi” (Agostino, Discorsi, 80, 8).

[6] Lc 2, 34-35: “Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: ‘Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori’”; Gv 16, 33: “… ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!”.

[7] E continua: “Ridicolizzava, andando in giro con un paio di guanti rosa, la volontà di dominio con cui l’uomo moderno crede di diventare ‘qualcuno’ mettendo le mani su tutto, cose e persone. La felicità si ottiene a prezzo dell’anima, ma occorre capire se mentre crediamo di liberarci ci stiamo solo vendendo al peggior offerente. Solo il Nuovo libera, perché spinge a cercare l’irraggiungibile, abbandonando amari paradisi artificiali e rendendoci coraggiosi come i bambini, perché ‘per il bambino… l’universo è uguale al suo vasto desiderio’, purché a quel desiderio non si rinunci o non lo si baratti con uno specchietto luccicante, ribellandosi a chi ce lo offre, in cambio dell’anima, per arricchirsi e dominarci. Noi siamo fatti per ben altro, per ben oltre” (La noia e il Nuovo, in https://www.corriere.it/alessandro-d-avenia-ultimo-banco/21_aprile_12/74-noia-nuovo-df09d76e-9aad-11eb-8a47-2df09471dee5.shtml, consultato il 29-IV-2021).

[8] Vita activa. La condizione umana, Milano 1994, p. 182.

[9] H. Vicaire, Storia di S. Domenico, Roma 1983, pp. 644-645.

[10] Cf G. Biffi, Omelia per la Festa di san Domenico, Bologna 4-VIII-1984, in G. Biffi, Il mistero di Cristo e dei suoi Santi. Discorsi (giugno 1984-giugno 1985, Bologna 1985, pp. 14-16. Questa omelia ha ispirato del resto queste mie brevi riflessioni e quindi ne sono ampiamente debitrici.

[11] Cf J. Ratzinger, Guardare Cristo …, pp. 82-83.

[12] “Si tratta comunque di uno scritto piuttosto generico di esortazione a preservare e a nutrire il fervore della ‘sancta conversatio’ nella quotidiana lotta con l’antico avversario, e nel rispetto dei più rigorosi precetti claustrali del silenzio e, cosa più significativa, del lavoro manuale, etc.” (L. Canetti, Intorno all'”idolo delle origini”. La storia dei primi frati Predicatori, in http://www.rmoa.unina.it/272/1/RM-Canetti-Predicatori.pdf, p. 1, consultato il 29-IV-2021).

[13] Quel ‘dimorare in Cristo’ (cf Gv 15, 1-8) che è condizione per portare frutto ma richiama all’importanza di una relazione di amore con il Cristo. Quel ‘dimorare’ dell’innamorato per il quale ogni cosa fa in qualche modo presente la persona amata: “I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano …” (A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Torino 1982, p. 93).

[14] Significativo quanto Guardini scriveva a proposito dell’importanza della veracità del nostro parlare: “Ogni giovinezza schietta e viva sta sotto il segno della veracità. Dallo spirito di verità ha origine ciò che in essa può diventare grande e duraturo. Ha un vero spirito giovanile solo quegli in cui è viva la seria, forte e lieta volontà di vero. Egli deve tendere a liberarsi da ogni realtà menzognera; deve diventare schietto nel suo sentire; non contraffarsi; deve lottare per un giudizio chiaro su ciò che è puro e naturale; deve voler diventare semplice nella sua indole, sincero verso Dio, gli uomini e se stesso. Deve saper guardare in faccia le cose e deve avere il coraggio delle proprie opinioni. Ma tale decisione, di attuare la verità in se stessi, non è presunzione. Non deve significare che ci si vuol far valere; che ci si atteggia a giudice sopra ogni questione, che si conosce tutto ciò che è meglio, che si critica tutto e che si dichiara infallibile il proprio modo di sentire e di intendere. Questa non sarebbe veracità, ma boria. La nostra veracità deve essere al servizio …” (R. Guardini, Lettere …, p. 15).

[15] Amleto, Atto V, Scena II.

[16] Cf P. Lippini, La spiritualità …, p. 51.

[17] Cf P. Lippini, La spiritualità …, pp. 48-56.

[18] Cf G. Biffi, Omelia per la Festa di san Domenico …, p. 15.

[19] Su questo aspetto rimando ad un’altra mia breve riflessione: I Domenicani. Un ordine nato in un’osteria, in Testimoni 43 (2020) 32-34. Sulla coerenza di vita di Domenico, viene alla mente e si propone alla nostra meditazione quanto scritto da sant’Agostino: “Noi lodiamo il Signore in chiesa quando ci raduniamo. Al momento in cui ciascuno ritorna alle proprie occupazioni, quasi cessa di lodare Dio. Non bisogna invece smettere di vivere bene e di lodare sempre Dio. Bada che tralasci di lodare Dio quando ti allontani dalla giustizia e da ciò che a lui piace. Infatti se non ti allontani mai dalla vita onesta, la tua lingua tace, ma la tua vita grida e l’orecchio di Dio è vicino al tuo cuore. Le nostre orecchie sentono le vostri voci, le orecchie di Dio si aprono ai nostri pensieri” (Commento al salmo 148, in CCL, vol. 40, p. 2166).

[20] Cf H. Vicaire, Storia di san Domenico, Roma 1983, p. 426.

[21] Cf L. Canetti, Intorno all'”idolo delle origini”…, p. 10, nota 55: Iordani, Libellus, § 44, p. 47.

[22] Cf H. Vicaire, Storia …, pp. 426-427. Il grano ammassato marcisce, disseminato fruttifica sono parole attribuite a san Domenico in una bolla di incoraggiamento di papa Onorio III.

[23] Fingendo addirittura di non vedere ciò che è ovvio ed evidente: la vita fisica non è una realtà progressiva o c’è o non c’è! Le varie leggi umane che non permettono l’aborto dopo un certo numero di settimane, ipocritamente danno per scontato ciò che scientificamente non può essere provato: la settimana precedente, ma anche un attimo prima del lasso di tempo stabilito dalla legge, che cosa c’era o chi c’era nella pancia della madre.

[24] Sull’equivocità dell’uso di questo termine, rinvio alla mia seguente riflessione: http://www.padrebruno.com/rispetto-tolleranza/, 29-VII-2019. Per quanto riguarda poi il confuso ed equivocato concetto di pluralismo propongo semplicemente di riflettere, dispensandomi da ogni commento, sulla notizia d’agenzia che riferisce che in una Università statunitense ha abolito il dipartimento dei classici in quanto tutti bianchi e addirittura maschi: https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/approfondimenti/2021/04/20/luniversita-nera-cancella-i-classici-polemica_9d0dac96-e5e2-40ab-b46a-7b655b25f487.html, consultato il 7-V-2021.

[25] Senza voler entrare in sterili polemiche, mi limito semplicemente a proporre di riflettere sul fatto che, forse, qualcuno è più preso dalla pubblicità e ossessionato dalla propria popolarità più che per l’attenzione alle persone. Ovviamente ci si giustifica affermando che quanto portato avanti in precedenza era sbagliato, frutto d’ignoranza, mentre finalmente al presente (che, però, sarà passato quanto prima), ci si è ‘convertiti e finalmente si è capito veramente come stanno le cose, cf: https://www.corriere.it/spettacoli/21_maggio_03/cantante-si-scusa-testi-contro-gay-anni-fa-ero-piu-ignorante-b29c101a-ac47-11eb-85bf-b7fbcf91bb8d.shtml, consultato il 4-V-2021. In ogni caso, a prescindere da tutti e da tutto, bisognerebbe essere indignati di fronte a qualunque tipo e forma di opportunistico trasformismo di chi approfitta di ogni occasione per esaltare il proprio ego e per fare affari, in un delirio di onnipotenza per la notorietà acquisita…, grazie a chi e a che cosa?

[26]  “Le verità si trasformano in dogmi nel momento in cui vengono messe in discussione. Pertanto, ogni uomo che esprime un dubbio definisce una religione. E lo scetticismo del nostro tempo non distrugge realmente le credenze, ma anzi le crea, conferendo loro dei limiti e una forma chiara e provocatoria. Un tempo, noi liberali consideravamo il liberalismo semplicemente una verità ovvia. Oggi che è stato messo in discussione, lo consideriamo una vera e propria fede. Un tempo noi che crediamo nel patriottismo pensavamo che il patriottismo fosse ragionevole e nulla più. Oggi sappiamo che è irragionevole e sappiamo che è giusto. Noi cristiani non avevamo mai conosciuto il grande buonsenso filosofico insito in quel mistero, finché gli scrittori anticristiani non ce l’hanno mostrato.

La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. È una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. È una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto” (G. K. Chesterton, Eretici, Torino, 2010 [originale del 1905], pp. 242-243; nostro il corsivo).

[27] Queste affermazioni dovrebbero però essere completate tenendo presente: 1°) che si è liberi con e per gli altri e non esiste una libertà umana assoluta; 2°) che ogni scelta ha delle conseguenze che bisogna assumersi in prima persona e non ‘trasferirle’ ad altri; 3°) che non tutto ciò che è possibile fare è anche la cosa giusta e il bene per me e per gli altri (cf 1 Cor 10, 23).

Sul relativismo frutto del soggettivismo rinvio al seguente mio articolo: La risposta cristiana al soggettivismo etico e giuridico, 30-V-2018, in http://www.settimananews.it/diritto/risposta-cristiana-al-soggettivismo-etico-giuridico/, consultato il 29-IV-2021.

In questo contesto diventa arduo, se non addirittura ipocrita, ‘scandalizzarsi’ di certi comportamenti delle nuove generazioni, come ha giustamente notato in questi giorni A. D’Avenia: ” Per questo trovo l’espressione ‘cultura dello stupro’ riduttiva: perché mai una società che accetta senza problemi la pornografia si indigna del fatto che i gesti maschili nei confronti di una ragazza siano predatori? […] Come si può pensare che tutto questo non abbia un impatto enorme sulla sessualità, e in particolare dei giovani maschi? Gli iper-corpi del porno sono macchine di potere dall’orgasmo continuo e perfetto, che impongono un immaginario di dominio che esclude la fragilità, le paure, i difetti dei corpi veri. Il sesso, dialogo che raggiunge ogni angolo dell’anima e del corpo, proprio grazie all’accettazione totale e all’ascolto reciproci, viene ridotto a illusione priva della sua ordinaria e più raramente festiva realtà, perché serve solo a eccitare chi guarda. Gli esseri umani fanno l’amore al modo in cui amano. […] Nella pornografia non c’è nessun altro da me, ma un monologo, spesso violento, in cui l’altro è solo uno strumento. Nella città in cui sono nato si dice ‘meglio comandare che fottere’, a dimostrazione che entrambe le esperienze servono a un io debole a sentirsi qualcuno grazie al dominio sull’altro. Il potere garantisce un ‘godimento’ prolungato, ‘fottere’ no, e infatti spesso l’ossessione per la ‘durata’ sostituisce la ‘pienezza‘ dell’esperienza. Per questo la pornografia crea dipendenza soprattutto in chi non si sente all’altezza di rapporti veri, una dipendenza di cui non si parla, benché sia molto diffusa tra i ragazzi. […] Io educo a guardare il mondo con gentilezza, cioè ascoltando e scoprendo, perché ho come fine la libertà dei miei studenti, la pornografia educa invece a consumare, usare, dominare, perché ha come scopo vendere, rendendo dipendenti dai consumi compulsivi. Prima di parlare di cultura dello stupro, dovremmo interrogarci su quella che chiamerei ‘stuprornografia‘: il consumismo ha trasformato il sesso in dominio e assoggettamento dell’altro, ma le relazioni vere e profonde, proprio grazie al sesso, si ‘alimentano’, non si ‘consumano’” (Il consumo dei corpi, in: //www.corriere.it/alessandro-d-avenia-ultimo-banco/21_maggio_10/78-consumo-corpi-cf12b724-b0b3-11eb-b5e4-ce48dcf21aca.shtml, consultato il 10-V-2021).

Si veda anche: A. Teggi, D’Avenia: la violenza della pornografia consuma i nostri ragazzi, in: //it.aleteia.org/2021/05/10/davenia-violenza-pornografia-consumare-nostri-ragazzi/, consultato il 10-V-2021.

[28] Il diavolo, colui che divide, dal lat. tardo, eccles., diabŏlus, gr. διάβολος, propr. ‘calunniatore’ (der. di διαβάλλω «gettare attraverso/mettersi di traverso, calunniare’), adoperato nel gr. crist. per tradurre l’ebr. śāṭān ‘contraddittore, oppositore’ (cf voce diavolo, in https://www.treccani.it/vocabolario/diavolo/, consultato il 29-IV-2021).

[29] In questa prospettiva va recuperata la verità e l’attualità delle seguenti considerazioni di un autore della metà del II secolo: “I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere. Questa dottrina che essi seguono non l’hanno inventata loro in seguito a riflessione e ricerca di uomini che amavano le novità, né essi si appoggiano, come certuni, su un sistema filosofico umano. 

Risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera. Come tutti gli altri uomini si sposano ed hanno figli, ma non ripudiano i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. 

Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa testimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati, e benedicono; sono trattati in modo oltraggioso, e ricambiano con l’onore. Quando fanno dei bene vengono puniti come fossero malfattori; mentre sono puniti gioiscono come se si donasse loro la vita. I Giudei muovono a loro guerra come a gente straniera, e i pagani li perseguitano; ma coloro che li odiano non sanno dire la causa del loro odio. […] anche il mondo odia i cristiani pur non avendo ricevuto nessuna ingiuria, per il solo motivo che questi sono contrari al male” (Epistola a Diogneto, capp. 5-6; Funk, 1, pp. 317-321).

[30] Sulla questione si rinvia ad una attenta rilettura di Gaudium et spes, in particolare i nn. 23-45 e specialmente quanto affermato solennemente al n. 76: “Ma sempre e dovunque, e con vera libertà, è suo diritto predicare la fede e insegnare la propria dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la propria missione tra gli uomini e dare il proprio giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime. E farà questo utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e in armonia col bene di tutti, secondo la diversità dei tempi e delle situazioni”.

[31] S. Tugwell, Omaggio a un santo, in G. Bedouelle, Domenico. La grazia della Parola, Roma 1984, p. 282.


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