Esame di coscienza o d’incoscienza? (Terza Parte)


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Esame di coscienza o d’incoscienza? (Terza Parte)


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Nota previa

  1. Quanto segue vuole essere un semplice accompagnamento per fare un buon ‘esame di coscienza’, soprattutto in questo momento dove per molti non sarà possibile accostarsi individualmente al Sacramento della Riconciliazione o Penitenza. Quindi, un aiuto concreto a fare un atto di contrizione perfetto, come abbiamo spiegato nella Prima Parte.
  2. Il presente testo non è stato scritto per essere letto di seguito, ma per essere materia di riflessione in modo particolare durante la prossima Settimana Santa. Per questo motivo questa ultima Parte è divisa in quattro punti, numerati progressivamente, da meditare uno dopo l’altro, o per ritornarci sopra, approfittando dei diversi riferimenti biblici. Ho riportato per esteso solo i più significativi, ma ognuno è caldamente invitato a meditare i diversi indicati. Per alcuni sarà un’occasione per prendere o riprendere familiarità con la Parola di Dio al posto delle tante parole, o WhatsApp, degli uomini.
  3. Come ho già evidenziato nelle precedenti parti, anche questo esame di coscienza, pur essendo stato richiesto e pensato per aiutare i membri del Gran Priorato/Delegazione di Roma dell’Ordine di Malta è offerto a tutti ed è per tutti.

“In tal modo, con il punire alcuni peccati, con il perdonarne altri e con il farne servire altri a vantaggio e aiuto dei buoni, Dio, che permette il nascere del male, trae dal male il bene per tutti i buoni. […] Dobbiamo perciò dire che tutto si compie per sua volontà ma distinguendo bene in Dio ciò che permette, da ciò che egli compie, poiché non possiamo dire ch’egli non è giudice. Più esattamente, quando egli giudica e rende a ciascuno secondo le proprie opere (cf 2 Tm 4, 14). […] Egli dunque permette che si commettano i peccati ma non è lui a commetterli. Sebbene a causa di certi peccati Dio abbandoni alcuni in balìa dei desideri del proprio cuore (cf Rm 1, 24) …” (Sant’Agostino, Lettera 282, 8-9).

“Al Regno annunciato da Cristo si può accedere soltanto mediante la ‘metánoia’, cioè attraverso quell’intimo e totale cambiamento e rinnovamento di tutto l’uomo, di tutto il suo sentire, giudicare e disporre, che si attua in lui alla luce della santità e della carità di Dio, che, nel Figlio, a noi si sono manifestate e si sono comunicate con pienezza (cf Eb 1, 2; Col 1, 19 e passim; Ef 1,23 e passim). L’invito del Figlio alla ‘metánoia’ diviene più indeclinabile in quanto egli non soltanto la predica, ma offre anche esempio di penitenza. Cristo infatti è il modello supremo dei penitenti: ha voluto subire la pena per i peccati non suoi, ma degli altri (cf San Tommaso, Sum. Teol., III, q. 15, a. 1, ad 5)” (Paolo VI, Paenitemini, I).

Il parroco di Brescello, Don Camillo, faceva di tutto per salvare i suoi parrocchiani, soprattutto dopo che, avendo messo in dubbio la possibilità di salvarsi di Peppone, si sentì dire dal crocifisso: “Nessuno è perfetto, ma nessuno è dannato …” (G. Guareschi, Mondo piccolo), anche se senza pentimento nessuno si redime!

  1. “Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: ‘Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto’. Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: ‘Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso’. C’era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.
    Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: ‘Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!’. Ma l’altro lo rimproverava: ‘Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male’. E aggiunse: ‘Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno’. Gli rispose: ‘In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso’ (Lc 23, 35-43).

            Perché ho voluto iniziare, dopo aver ricordato sant’Agostino, san Paolo VI e Guareschi, con questo brano dell’Evangelista Luca, questa parte della riflessione sul Sacramento della Riconciliazione, che riguarda direttamente l’esame di coscienza? La domanda non è oziosa e per accertarsene basta leggere i sussidi di ieri su questo argomento, che di solito partono dalla così detta parabola del Figliol prodigo per poi proseguire in dettagliati elenchi di domande, finalizzate a guidare il penitente nell’illuminare la sua coscienza.  Dove, correttamente, l’attenzione è focalizzata su Dio che è Padre misericordioso ed è ansioso di accogliere il ritorno alla vita di un figlio che era spiritualmente morto. Invece, ho deciso di proporre qui una pista di riflessione che, tenendo ferma la priorità di Dio padre misericordioso, cerca di evidenziare maggiormente quelle che devono essere le intenzioni e l’attitudine di fondo, il cuore, di ciascuno di noi che prendendo atto dell’amore infinito di Dio, si rende conto di avere sprecato relazioni con persone, situazioni della propria vita quando, con il peccato, ha di fatto rifiutato questo amore. Scoprendo che di fronte al peccato non è tanto importante il reprimersi, se non proprio il non sprecare.

Una vita che ciascuno di noi in questi giorni, per la pandemia del coronavirus, sta riscoprendo come non scontata e, soprattutto, che si gioca durante un solo tempo, non dandosi tempi supplementari nella partita della vita. In modo particolare, rendendosi conto che questo dono della vita è estremamente fragile se un virus invisibile, può distruggere i nostri polmoni e non permetterci la funzione vitale del respirare, che magari fino a poco tempo prima ci poteva sembrare normale, scontata o addirittura dovuta. La necessità di questa funzione vitale qual è la respirazione per la vita fisica, dovrebbe forse farci venire in mente che anche la nostra vita spirituale necessita dell’ossigenazione e che con il peccato diventiamo di fatto asfittici. Quanto stiamo vivendo è senza dubbio un’occasione propizia, che non possiamo sprecare, per ripensare la nostra esistenza recuperando il senso del nostro essere pellegrini (e non vagabondi), che sanno di essere di passaggio nel tempo verso l’unica certezza che hanno: la méta dell’eternità! Ci sentivamo fino a poco tempo fa ‘onnipotenti’, ma ultimamente ci siamo risvegliati sapendo che siamo tutti ‘malati’ (Papa Francesco) e che tutti possiamo morire in camera di rianimazione, soli … La morte non come realtà da esorcizzare pensando che tocca sempre gli altri, ma come qualcosa con cui fare i conti sul momento. Gli effetti dannosi e devastanti di cui ci stiamo rendendo conto in questi giorni a tutti i livelli ed in tutti gli ambienti sociali, derivano da una soggettività concepita come assoluta, che diventa soggettivismo etico, prigioniero del suo ego, che perciò vanifica o strumentalizza ogni tipo di relazione. Siamo arrivati a voler quasi giustificare l’assurdo: l’uomo, essere finito, che pretende di avere una libertà infinita! Se siamo onesti dobbiamo prima riconoscere tutto questo, ma allo stesso tempo valgono per tutte le parole di una famosa canzone dei A. Venditti del 2003: “Quando penso che sia finita, è proprio allora che comincia la salita: che fantastica storia è la vita!”. Con la speranza, perciò per ciascuno di noi, che questo inizio della salita sia la nostra conversione all’amore di Dio.

Quindi l’atteggiamento che dobbiamo chiedere a Dio e che dobbiamo impegnarci ad assumere per poter fare un buon esame di coscienza e non d’incoscienza (cf A. Cencini), è quello, prima di tutto, di essere onesti con Dio e con noi stessi, di non illuderci di fare i furbi in questo, o di autoconvincerci di poter barare con Dio e con noi stessi. “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Gv 1, 8). “Riconoscersi peccatori è già un dono di Dio, un atto possibile solo alla luce della fede, una difficile vittoria sulla tendenza alla autogiustificazione (CEI, Catechismo degli adulti, n. 926).  Ecco perché ho scelto il presente brano di san Luca, per il sottoscritto uno dei più belli e toccanti della Sacra Scrittura, in quanto mi sembra che sia la migliore introduzione a questa prospettiva che individua nell’onestà la condicio sine qua non senza la quale è impossibile mettersi di fronte alla propria coscienza, quindi prima di tutto a Dio ed a noi stessi. Di fatto, dal dialogo tra il Cristo e colui che dalla tradizione è indicato come il ‘buon ladrone’, emerge una verità impregnata di speranza: non importa cosa si è potuto fare o non fare nella vita, l’importante è di riconoscerlo onestamente, confessarlo con un pieno senso di pentimento che include necessariamente il rifiuto di quanto di sbagliato si è compiuto, e la disposizione a riparare, con tutto quello che ciò comporta. Infatti, sarebbe accettabile che qualcuno andasse a confessarsi di aver svaligiato una banca e chiedesse al sacerdote di dargli subito l’assoluzione perché deve fare un’altra rapina?  Quindi nient’altro che i così detti atti del penitente ricordati dal Catechismo, di cui ho già parlato nella Parte Prima: “Gli atti del penitente sono: il pentimento, la confessione o manifestazione dei peccati al sacerdote e il proposito di compiere la soddisfazione e le opere di soddisfazione” (CCC, n. 1491). Tali atti pur essendo esterni, come corrisponde ad un Sacramento (cf CCC, n. 1131), devono essere segno e manifestazione della penitenza interiore e soprattutto animati da essa. In caso contrario sono falsi (ipocriti) se non addirittura intesi come gesti/riti magici. Infatti, questi atti del penitente fanno parte integrante del Sacramento, in quanto si richiede il coinvolgimento e l’impegno della persona interessata per riacquistare lo stato di grazia, analogamente che per guarire, un paziente deve cooperare con il medico che lo cura.

  • Allora è con onestà che dobbiamo fare il nostro esame di coscienza, che il buon senso e la tradizione della Chiesa c’invita a fare, oltre che in preparazione della confessione o dell’atto di contrizione perfetta, anche alla fine di ogni giornata che Dio ci ha donata, con profondo sentimento di gratitudine. Ora passo a proporre tre verità che dovrebbero illuminare e guidare il nostro esame di coscienza.

La prima verità da non dimenticare mai, riguarda l’amore che Dio ha per me. L’Evangelista Giovanni ci ricorda che: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16); “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4, 10). La prima cosa, se siamo veramente onesti, è infatti riconoscere e ringraziare Dio in quanto tocco con mano, dalle piccole alle grandi cose, che tutto è un dono, iniziando da quello grazie al quale tutto è reso possibile: il dono della vita. Dio mi ha dato l’esserci e con questo il mio destino alla felicità eterna. Consapevoli che la vita in sé può riservare dolori e sofferenza inenarrabili, san Paolo ci ricorda il senso che solo la fede in Cristo può dare a tutto questo: “Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 31-35; 37-39). Scoprendo alla fine, con l’Apostolo che: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20).

In questo tempo di Quaresima e specialmente nella Settimana Santa siamo chiamati a meditare sulla crocifissione di Cristo, sulla sua morte in attesa di celebrare la sua Risurrezione. Una croce che ci scandalizza o che reputiamo stoltezza (cf 1 Cor 1, 23), perché ci manifesta che Dio è così diverso dal nostro dio o dagli idoli davanti ai quali ognuno di noi si prostra (cf Papa Francesco) senza accorgersene e che di fatto ci fanno degli schiavi (cf 2 Pt 2, 19). La croce che non rappresenta un destino indecifrabile, ma testimonianza di un amore che rivela l’amore di Dio e il senso di ogni cosa.

Il Dio di Gesù chiede molto alla nostra vita, perché anziché essere a nostra immagine e somiglianza, ci chiede di convertirci al suo progetto d’amore per ciascuno di noi. Questo deve portarci a confrontare il nostro modo di vivere con l’amore di Dio. Noi spesso ricerchiamo solo il nostro egoistico ‘benessere’, non distinguendolo dal ‘bene’. Camuffiamo come ‘amore’ ciò che in realtà è tutto tranne che amore, ce ne riempiamo la bocca ma sempre pensando a noi stessi, nel vedere ed usare tutti e tutto per appagare i nostri desideri e le nostre passioni. Molte volte amiamo più la nostra ‘idea dell’amore’ che amare! Amare per noi significa, spesso e volentieri, possedere, godere, sfruttando persone e situazioni per un narcisistico appagamento (v. il nostro rapporto con gli altri alla luce del momento presente). Per Dio amare significa donare il proprio Figlio, per la salvezza di tutti. Allora, questa verità deve portarmi ad impostare ovvero a rivedere il mio rapporto con Dio, a come vivo la mia fede: questa è una necessità non un’opzione! Come mangiamo e beviamo più volte al giorno e se non lo facciamo la nostra fisica deperisce ed alla fine muore, così se non nutriamo quotidianamente la fede che abbiamo ricevuto in dono il giorno del Battesimo, questa deperisce fino a spegnersi. Non posso limitarmi a quanto ho ricevuto in occasione della prima Comunione o accontentarmi, ma ho l’obbligo (dovere che si basa su un valore), di coltivare ogni giorno questo dono. Vivere la celebrazione della Santa Messa la domenica o nei giorni di festa, pregare durante la giornata, specialmente alla luce della Parola di Dio, non è un favore che faccio a Dio, è necessario per me. Allo stesso modo che non faccio un favore a nessuno, ma è per me, quando mi nutro e curo il mio corpo ogni giorno. Posso allora dire, senza vergognarmi di me stesso, di non avere il tempo per Colui che mi dona il tempo? O posso arrivare ad auto-illudermi che Dio e sempre con me (anche se io non sono sempre ‘con’ Lui), e non mi serve pregare o andare in chiesa?

La seconda verità da tenere ben presente riguarda l’amore per se stessi. Nella Regola d’oro ci viene ricordato che: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti” (Mt 7, 12). Il corretto amore per noi stessi, l’uso appropriato dei doni, dei talenti che Dio ci ha fatto, il sentirci amministratori (cf 1 Cor 4, 2), e non padroni di tutto quanto sappiamo abbiamo ricevuto dalla sua bontà, è fondamentale per non sprecare la nostra vita, che non è una nostra proprietà. Solo se ci accettiamo così come siamo, se accettiamo relazioni ed accadimenti per quello che sono, ma c’impegniamo con l’aiuto di Dio nel fare quello che possiamo per migliorare, per rendere anche un peccato o una disgrazia un’occasione di grazia, allora avremo fatto ciò che potevamo e qualsiasi cosa accadrà sarà oggetto di adorazione (cf T. de Chardin). Dobbiamo rivalutare nel giusto senso l’amore per noi stessi, in quanto esso è condizione senza la quale è impossibile impostare correttamente il nostro rapporto con Dio e con il prossimo. Nel vangelo di Marco leggiamo: “Allora si accostò uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: ‘Qual è il primo di tutti i comandamenti?’. Gesù rispose: ‘Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: ‘Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi’. Allora lo scriba gli disse: ‘Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici’. Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: ‘Non sei lontano dal regno di Dio’.” (Mc 12, 28-34).

La terza verità tocca l’amore per il prossimo. “Se uno dicesse: ‘Io amo Dio’, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede“ (1 Gv 4, 20). L’amore per l’altro, non teorico, astratto, generico, ma che inizia da quello che mi sta più vicino, si fonda sulla nostra natura sociale – abbiamo bisogno dell’altro a livello effettivo ed affettivo – ma alla luce della Rivelazione operata da Cristo acquista un significato ancora più profondo: se Dio è nostro padre, noi siamo figli, e se siamo tutti figli, tra noi siamo tra noi fratelli! Perciò l’altro non è solo un partner di cui ho bisogno per soddisfare le mie esigenze e conseguire i miei fini, ma è intimamente legato al mio destino familiare. In questi giorni di forzata ‘clausura’ ci mancano tante persone, addirittura ci mancano quelle persone per le quali pensavamo di non avere il tempo: ora abbiamo il tempo e ci mancano le persone. Siamo veramente strani e curiosi, per non dire altro! Però in questi giorni sentiamo il bisogno degli altri, anche se la forzata convivenza e lo stress esasperano i rapporti con quelli ci sono ora vicini, confermando questa nostra ‘schizofrenia’ (v. aumento delle richieste di divorzio in Cina alla fine della quarantena).

Allo stesso tempo siamo coscienti che questa battaglia contro la pandemia (ma al di à di questa, contro tutto quello che ci minaccia), e per chi sopravviverà, alle conseguenze che sicuramente avrà, si vincerà solo se saremo uniti, se combatteremo insieme (cf Papa Francesco e Presidente Mattarella). Giustamente è stato notato che: “La salute di tutti dipende dalla salute di ciascuno. Siamo tutti connessi in una relazione di interdipendenza. […] La pandemia ci invita a trasformare radicalmente le nostre relazioni sociali. Oggi il capitalismo conosce ‘il prezzo di tutto e il valore di niente’, per citare un’efficace formula di Oscar Wilde. Dobbiamo capire che la vera fonte di valore sono le nostre relazioni umane e quelle con l’ambiente. Per privatizzarle, le distruggiamo e roviniamo le nostre società, mentre mettiamo a rischio vite umane. Non siamo monadi isolate, collegate solo da un astratto sistema di prezzi, ma esseri di carne interdipendenti con gli altri e con il territorio. Questo è ciò che dobbiamo imparare nuovamente. La salute di ciascuno riguarda tutti gli altri. […] Benvenuti in un mondo limitato!” (G. Giraud, Per ripartire dopo l’emergenza Covid-19, in La Civiltà Cattolica 171 [2020/II] 10; 13; 15). Però, aggiungo che la questione della salute, vale soprattutto per la ‘salute dell’anima’, per la salute spirituale, che riguarda anche le altre anime. Stiamo prendendo coscienza che l’egoismo è ‘miope’ e che non porta risultati duraturi: ora ed in molte altre situazioni, o ci salviamo insieme o soccomberemo insieme, scoprendo che il mio interesse è l’interesse di tutti e viceversa. Questa unità si potrà avere solo se recupereremo il nostro essere figli di Dio e tra noi fratelli, e per nessun altro motivo o scopo! In questo contesto risuonano profetiche le parole del Concilio Vaticano II:

“La sacra Scrittura, però, con cui si accorda l’esperienza dei secoli, insegna agli uomini che il progresso umano, che pure è un grande bene dell’uomo, porta con sé una seria tentazione. Infatti, sconvolto l’ordine dei valori e mescolando il male col bene, gli individui e i gruppi guardano solamente agli interessi propri e non a quelli degli altri; cosi il mondo cessa di essere il campo di una genuina fraternità, mentre invece l’aumento della potenza umana minaccia di distruggere ormai lo stesso genere umano. Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio. Per questo la Chiesa di Cristo, fiduciosa nel piano provvidenziale del Creatore, mentre riconosce che il progresso umano può servire alla vera felicità degli uomini, non può tuttavia fare a meno di far risuonare il detto dell’Apostolo: ‘Non vogliate adattarvi allo stile di questo mondo’ (Rm12, 2) e cioè a quello spirito di vanità e di malizia che stravolge in strumento di peccato l’operosità umana, ordinata al servizio di Dio e dell’uomo. Se dunque ci si chiede come può essere vinta tale miserevole situazione, i cristiani per risposta affermano che tutte le attività umane, che son messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall’amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo. Redento da Cristo e diventato nuova creatura nello Spirito Santo, l’uomo, infatti, può e deve amare anche le cose che Dio ha creato. Da Dio le riceve: le vede come uscire dalle sue mani e le rispetta. Di esse ringrazia il divino benefattore e, usando e godendo delle creature in spirito di povertà e di libertà, viene introdotto nel vero possesso del mondo, come qualcuno che non ha niente e che possiede tutto: ‘Tutto, infatti, è vostro: ma voi siete di Cristo e il Cristo è di Dio’ (1 Cor 3, 22). […] Coloro pertanto che credono alla carità divina, sono da lui resi certi che la strada della carità è aperta a tutti gli uomini e che gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani. Così pure egli ammonisce a non camminare sulla strada della carità solamente nelle grandi cose, bensì e soprattutto nelle circostanze ordinarie della vita” (Gaudium et spes, nn. 37-38; si consiglia anche di leggere tutto il n. 38).

Questo ci dà l’occasione per enunciare un altro punto fonte di confusione oggi: il rapporto tra peccato personale e peccato sociale. Ogni peccato è personale sotto un aspetto; sotto un altro aspetto è sociale per le sue conseguenze. Ogni peccato personale produce conseguenze più o meno dannose per la Chiesa e la società (cf Reconciliato et paenitentia, nn. 15-16). L’amore per e del prossimo, deve essere perciò compreso in tutta la sua positività a livello sociale e di fede. Ciò implica di rivedere il nostro modo di vivere la libertà, che non può limitarsi alla sua manifestazione infantile di voler fare quello che si vuole, ma implica la matura scelta del vero bene. “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 5, 13). Richiede, soprattutto, di riscoprire quanto sia fondamentale la giustizia, verso Dio (virtù di religione) ed il prossimo, in quanto primo atto richiesto dalla carità.

  • Alla luce dell’atteggiamento di fondo, l’onestà con Dio, con se stessi e gli altri, e delle tre verità da tenere presenti, ciascuno può fare ora il proprio esame, non d’incoscienza, ma di coscienza. Affinché un tale esame porti frutti di conversione, occorre evitare l’autoreferenzialità e confrontarsi prima di tutto con la Parola di Dio, la sola che, alla fine, ci permette di scoprirci quali siamo veramente. Non prendendo atto solo dei miei comportamenti, ma interrogandomi sul perché e per chi ho fatto o non fatto una determinata cosa. Colui che è convinto di sapere tutto e di conoscere sempre cosa è giusto fare è solo un povero incosciente, come il ‘povero ricco’ del Vangelo, un senza nome, un anonimo, di fronte al povero Lazzaro il cui nome risuona da più di duemila anni (cf Lc 16, 19-20). La conversione non si ottiene in una settimana, o con un colpo di bacchetta magica, ma s’identifica con il nostro pellegrinaggio terreno. Infatti, non dobbiamo dimenticare che la parola ebraica usata per ‘peccare’ esprime l’idea di mancare il proprio bersaglio (‘Peccato’ traduce di solito l’ebraico chattàʼth e il greco hamartìa. In entrambe le lingue le forme verbali [ebr. chatàʼ; gr. hamartàno] significano ‘mancare’, nel senso di fallire un bersaglio o non raggiungere un obiettivo o un punto esatto, sbagliare strada). Intendendo per ‘bersaglio’ quel progetto d’amore che Dio ha previsto per me. Bersaglio e sua mancanza (= peccato) che riuscirò a cogliere solo in un dialogo vivo con Dio, nell’ascolto onesto e fedele della sua Parola, prendendo continuamente coscienza che le Sue vie non sono le nostre (cf Is 55, 8; Sal, 51, 6).

In questo cammino lungo e quotidiano di conversione, necessario per noi come il mangiare ed il bere, stiamo attenti di non cadere in quella che è una vera e propria tentazione del demonio: perché perdi tempo? Tanto non cambierai mai! Allora, meditiamo le seguenti parole dell’Apostolo Paolo:

“… quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato” (Rm 7, 17-25).

Questo mi dà l’occasione per ricordare una semplice verità, che mi accorgo dimentico e dimenticano molti: essere cristiano, non è facile o difficile, ma è semplicemente impossibile per le nostre sole forze umane. Però non dimentichiamoci: nulla è impossibile a Dio ovvero nulla è impossibile agli uomini con la grazia di Dio! (cf Mt 19, 26; Lc 1, 37; Rm 8, 3; Eb 11, 16). Allora coraggio: “Non abbandonate la vostra fiducia, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di costanza, perché dopo aver fatto la volontà di Dio possiate raggiungere la promessa” (Eb 10, 35-36), perché Dio gradisce un animo pentito e non disprezza un cuore affranto ed umiliato (cf Sal. 50, 19).

San Tommaso afferma, ed è opportuno ricordarlo, riguardo all’ordine che deve avere la carità: “… l‘uomo deve amare se stesso, dopo Dio, più di chiunque altro. E ciò appare chiaro in base al motivo stesso di questo amore. Come infatti si è già notato [a. 2; q. 25, a. 12], Dio viene amato quale principio del bene su cui si fonda l‘amore di carità; l‘uomo poi con la carità ama se stesso in quanto partecipa a tale bene, mentre il prossimo viene amato in forza della sua compartecipazione allo stesso bene. Ora, la compartecipazione è un motivo di amore in quanto costituisce un‘unione in ordine a Dio. Come quindi l‘unità è più dell‘unione, così il fatto di partecipare personalmente il bene divino è un motivo di amore superiore al fatto di avere associata a sé un‘altra persona in questa partecipazione. Per cui l‘uomo deve amare se stesso con la carità più del prossimo. E ne abbiamo un indizio nel fatto che uno non deve mai rassegnarsi al male della colpa, che è incompatibile con la partecipazione alla beatitudine, per liberare il prossimo dal peccato” (Sum. Teol., I-II, q. 26, a. 4, c.).

  • Quindi, tenendo presente l’ordine della carità che esige di amare prima Dio, poi se stessi e quindi il prossimo, nello schema per l’esame di coscienza, che propongo ora, seguirò detto ordine gerarchico, limitandomi ad indicare, per non allungare ulteriormente il presente testo, i Comandamenti che non sono un divieto ad essere felici (“Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”: Mt 9, 17) e le Beatitudini che sono una proposta per una pienezza di vita (“Beati voi …”: Mt 5, 11), e qualche altro brano evangelico, connesso per ciascuno ambito di relazione.

Tenendo presente quanto ho fin qui cercato di evidenziare, lascio alla maturità ed all’onestà di ciascuno l’approfondimento, rinviando soprattutto al Catechismo, in quella libertà di figli che è basilare (cf Rm 8, 21), nella certezza che solo la conoscenza della Verità ci farà veramente liberi (cf Gv 8, 32; 34-36). In tutto questo: fissiamo lo sguardo su Cristo, dialoghiamo con Lui, incarniamolo nella nostra vita, tenendo presente che proprio: “Il segno sacramentale di questa limpidezza della coscienza è l’atto tradizionalmente chiamato esame di coscienza, atto che deve esser sempre non già un’ansiosa introspezione psicologica, ma il confronto sincero e sereno con la legge morale interiore, con le norme evangeliche proposte dalla Chiesa, con lo stesso Cristo Gesù, che è per noi maestro e modello di vita, e col Padre celeste, che ci chiama al bene e alla perfezione.” (Reconciliatio et paenitentia, n. 31, III).

A) L’amore verso Dio.

“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi. Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano. Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro (Esodo 20, 2-11; cf Deuteronomio 5, 6-15).

B) L’amore verso se stessi.

Per i motivi detti, quanto i Comandamenti ricordano nei confronti del prossimo, sono pienamente comprensibili se compresi come un’esigenza prima di tutto nostra quando: siamo genitori, difendiamo la nostra vita; viviamo non solo la fedeltà coniugale, ma anche la dignità della sessualità che non è un giocattolo con cui divertirsi; siamo coscienti del valore di quanto abbiamo acquisito o in stretta relazione con noi; della necessità della verità. “Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Lc 6, 31). “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 5, 13). In ogni caso la meditazione della parabola dei talenti che il Signore ci ha affidati come amministratori può aiutarci nell’esame di coscienza riguardo l’amore verso noi stessi (cf Mt 25, 14-30). In questa ottica conviene meditare anche il realismo delle seguenti affermazioni: “Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio’” (Lc 12, 19-21).

In modo tutto unico, il cristiano in questo ambito, è chiamato a fare l’esame di coscienza alla luce del messaggio rivoluzionario rappresentato dalle Beatitudini. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5, 3-11; cf Lc 6, 20-27). “In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4, 8). Solo in questo contesto acquistano il vero senso la rinuncia e la mortificazione che sono da sempre state parte del patrimonio spirituale ed ascetico del cristianesimo e che san Paolo sintetizza mirabilmente: “Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, …” (Col 3, 5).

C)L’amore verso il prossimo.

“Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio. Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Esodo 20, 12-17; cf Deuteronomio 5, 16-21). Ovviamente, ugualmente, anche in questo ambito, ci si confronti con le Beatitudini, , non dimenticando mai che: “Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v’è in lui occasione di inciampo. Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi” (1 Gv 2, 9-11).

L’esame di coscienza sia fatto sempre, , soprattutto in questo ambito, , alla luce del Padre nostro (cf Mt 6, 9-13), non trascurando una condizione che Cristo ha voluto evidenziare: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6, 14-15). Questo: “… perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.” (Mt 5, 45-48).

Alla luce della mia esperienza di ministro della misericordia, proprio in questi tre ambiti è importante impegnarsi nell’essere onesti, evitando tutte quelle immature pseudo giustificazioni, che continuamente portiamo e delle quali vogliamo autoconvincerci. Per esempio l’andare alla santa Messa di precetto, domenicale e non, solo quando uno se la sente ovvero che non c’è bisogno di andarci perché Dio è dentro di noi. Il volere giustificare comportamenti contrari alla dignità della persona, tempio dello Spirito Santo (cf 1 Cor 6, 19), con lo spreco dei talenti del tempo, dell’intelligenza, della sessualità. Il non riconoscere al nostro prossimo ciò che pretendiamo e chiediamo per noi dagli altri (cf Mt 7, 12) a livello di giustizia e misericordia, come la buona fama, la fedeltà, il dire la verità e l’essere perdonati. Le seguenti parole dell’Apostolo delle genti possono essere un aiuto ad esaminarci al riguardo: “Temo infatti che, venendo, non vi trovi come desidero […] che per caso non vi siano contese, invidie, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, disordini, …” (2 Cor 12, 20); perché: “… invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio” (Gal 5, 21). L’impegno costruttivo è solo nel vincere il male con il bene:

“Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi. Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rm 12, 15-21).

Conclusione

Come ho sopra ricordato, molti in questi giorni ribadiscono che il mondo non sarà lo stesso, dopo l’attuale crisi provocata dalla pandemia del coronavirus. Al riguardo mi vengono in mente le parole realistiche, e non pessimistiche, dell’autore dell’Ecclesiaste: “Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole” (1, 9). Del resto, basta dare uno sguardo sommario a quanto sta avvenendo in questo tempo, per vedere accanto a tanta solidarietà, generosità e sincera fraternità, tanto egoistico opportunismo, una mancata sensibilità al rispetto ed al bene comune, una esagerata moltiplicazione d’ingiustizie che gridano vendetta al cospetto di Dio, il moltiplicarsi della riduzione delle persone ad oggetto (v. internet), una sempre maggiore diffusione della volgarità, quasi istituzionalizzata attraverso giornali, radio, televisione, ed il continuo rifiuto della legge naturale. Questa presa di coscienza deve richiamare me alla conversione! “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!” (2 Cor 2, 6), per me e per te.

Boris Cyrulnik, psichiatra e psicanalista francese, sopravvissuto alle persecuzioni dei nazisti durante l’ultimo conflitto mondiale, spiega, attraverso l’applicazione alla psicologia del concetto di resilienza, mutuandolo dalla fisica meccanica (la capacità di un metallo di resistere agli urti senza spezzarsi), come è possibile usare anche le più inenarrabili sofferenze per essere migliori. Nella presa di coscienza che quando si è protagonisti di una qualsiasi catastrofe che ha modificato irreversibilmente l’esistenza, non bisogna perdere il tempo nel tentare di ristabilire l’ordine precedente, ma impegnarsi nella costruzione di uno nuovo (cf Costruire la resilienza, Trento 2005). Infatti, il passato è passato e non ritorna, il futuro non è nelle nostre mani, l’unica cosa è vivere pienamente e consapevolmente il presente. Recentemente (cf Psicoterapia di Dio, Torino 2018), sviluppa la sua tesi vedendo nella fede in Dio, tra le possibilità, un fattore di resilienza ed equilibrio spirituale-psichico.  Aspetto interessante che occorre non dimenticare, in quanto la persona è essenzialmente unità spirituale-psichica-fisica. Tra l’altro egli evidenzia anche che la cosa che dà più forza ad una persona che vive una crisi, è quella di poter essere amata così com’è. La seconda, consiste nel poter raccontare, anche solo a se stessi, il proprio vissuto, perché ciò consente di distanziarsene e dargli un senso. Aspetti psicologici interessanti che occorre non dimenticare, in quanto la persona è essenzialmente unità spirituale-psichica-fisica.

Già a livello di dinamiche psicologiche, tutti sappiamo per esperienza, che solo la scoperta di un qualcosa che mi motiva e mi attrae maggiormente, ci permette di staccarci, di scioglierci da ciò a cui eravamo legati in modo sbagliato in precedenza: solo ciò che è percepito come un piacere ed un bene maggiore, mi dà la forza di staccarmi da ciò che ormai sento insufficiente a riempire il vuoto che è dentro di me. Tutto questo lo realizza solo il vero bene e non le passioni ed il sentimentalismo che durano solo per un soffio di tempo e creano dipendenze monotone. Solo la scoperta di un amore più grande, che mi realizza e mi completa pienamente, mi aiuta a fare le scelte giuste ed a decidermi nel voler rinunciare al mio egoismo che sistematicamente rende arida la mia vita e fa del mio cuore un pezzo di pietra. L’indurimento del cuore è ciò che va evitato, perché il cuore deve essere di carne per pompare sangue e dare vita! (cf Ez 11, 19). Il punto fondamentale è allora proprio questo: la scoperta di un qualcosa d’incredibilmente più vero che mi motiva, mi dà la vera speranza e mi conferma nel perseverare in un cambiamento che non è di un momento, ma dura una vita. Un desiderio di cambiamento che trova la sua prima ragione nel desiderio di vivere in pienezza la vita, di non sprecarla, e non nel reprimersi o nel rinunciare, perché scopro che la vera libertà è scegliere anche di essere liberi da tutto ciò che non mi permette di conseguire il vero bene. Ha scritto A. de Saint-Exupéry: “Una volta sbocciato l’amore, mette radici che non finiscono più di crescere. [… ma] Bisogna cominciare col sacrificio per fondare l’amore. L’amore, in seguito, può sollevare altri sacrifici e impiegarli in tutte le vittorie.” (Pilota di guerra/La morale dell’inclinazione, Milano 2015, Kindle e-book, posizioni 1877; 2191).
Coscienti che nella realtà, quando diciamo di ‘amare’ e perché l’amore ci ha scelti! Interessante è lo scoprire dall’etimologia del termine ‘sacrificio’ che viene dal latino sacrum facere, ovvero “compiere un’azione sacra“. Il sacrificio correttamente inteso, anche se genericamente, è il compimento di un’azione che serve a manifestare il mio affetto e la mia riconoscenza a qualcuno o qualcosa che ha grande valore per me. Si decide e si fa di tutto per cambiare in meglio, non solo per se stessi, ma soprattutto per qualcuno o per qualcosa che si è scoperto si deve il cambiamento. Oggi che crediamo che tutto ci è dovuto dagli altri e siamo così accecati dal nostro infantile egoismo, forse recuperare questa dimensione della vita ci aiuterebbe ad essere donne ed uomini maturi.

Solo quando s’incomincia ad intravvedere un qualcuno od un qualcosa che risponde alle mie attese più pure e più vere di pienezza e felicità, che si fa strada il sincero desiderio di cambiare. Un momento, un’esperienza che, nella fede, sappiamo è sempre la manifestazione della tenerezza di Dio per noi.

La possibilità della conversione personale (come ritorno a Dio) deve, allora, aprirci alla speranza come c’invita a fare il racconto dell’adultera perdonata: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8, 11). Il giudizio di Cristo è differente da quello degli uomini, non è un giudizio che condanna e uccide, all’adultera è dato un giudizio che libera e salva, è consegnata una parola di speranza che dà vita. Allora, nel combattimento per la nostra felicità, che Dio primo tra tutti la desidera per noi, non dimentichiamo mai, neanche per un attimo, che: “… Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori …” (1 Tm 1, 15), e soprattutto che non saremo mai soli, dobbiamo solo avere perseveranza e coraggio e questo perché Cristo è con noi: “… tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).

Nella speranza che quanto proposto ti potrà essere d’aiuto, ti auguro una proficua Settimana Santa, per arrivare a vivere una vera Pasqua di Risurrezione nel Cristo nostra unica e sola speranza!

Roma, Angelicum, 1° aprile 2020

P. Bruno, O. P.


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